Archive Page 18

Il gatto

febbraio 2nd, 2009 by admin

andare
a saltelli
rapidi fra
imprecisi coaguli freschi
di lingue sottili
di luci intrecciate in fili di rame
di ombre che danzano al buio

la notte

mentre sul tetto il gatto s’ insinua
nel pallore lunare.

Momenti

febbraio 1st, 2009 by admin

Immagine di idakrot 

Momenti del vivere
in cui la solitudine
si fa nido accogliente, e tu
sei isola deserta da tutti
slegata dall’ altro, cieca di suoni
 
ci sono momenti così che
arrivano colpiscono e scalfiscono
la pelle del cuore    -     a sangue.
 
e vuoi lasciare divagare la mente
nel niente    -    nessuna domanda
nessun dopo quando come
solo     chi      ha fatto
 
questo
 
di me
 
e perché
 
isolata nel denso spessore del velo
secca la lingua
mutilata la parola, vela ripiegata
senza vento
 
ci sono momenti così,
passaggi del sé, sommersi tormenti
in lucidi specchi e
tu riverberi fiamme
dall’ occhio fissato alla trama tessuta
da agili dita di ragno.
 
Poi si fa giorno di nuovo
e il passo riprendi e la strada.

Strade

gennaio 31st, 2009 by admin

si pongono le strade
per via
dal punto focale divergenti
 
corrono le strade fra cordoli
duri cementificati,
confini senza sconto,
 
ma tu
rincorri l’ estro d’ andare
per cammini sommersi
reperti antichi da
ritrovare e note perse
da risuonare
dentro
 
spezzi la canna palustre
respiri sott’ acqua,
pulsante di lunghe attese
e spasmodiche,
nel pieno silenzio
che il sorger del sole
accompagna,
un canto ti fai, un inno,
dentro.

E
sgrani la vita.

Giuseppe Genna

gennaio 30th, 2009 by admin

parla della sua visione del degrado culturale italiano. 

“L’Italia in questo momento è un paese di avanguardia, una frontiera dell’osceno dove stanno arrivando a maturazione processi disgregativi e trasformazioni dell’umano che sono la china su cui discenderà tutto l’Occidente…”

“L’Italia ha avuto una mutazione antropologica e sociale negli ultimi 30 anni, da noi l’oscenità si sta manifestando in modo più potente che in altri luoghi. Si è inverata la profezia pasoliniana dell’involgarimento di massa, della spettacolarizzazione, del discorso unico che sostituisce il dialogo… E se da un lato c’è un imbarbarimento del luogo Italia, dall’altro io stesso sono connesso, con ossa, nervi e muscoli, a questo processo di anestesia emotiva e disamore.“…

…“L’Italia per diventare paese deve subire uno shock forte, passare per una fase dura di depauperamento determinata da varie ragioni, dalla crisi climatica alle ondate migratorie provenienti dalle aree più povere…. …Gli italiani, da poveri, probabilmente recupereranno la loro umanità… forse mi sbaglio, ma io vedo solo questa possibilità di cambiamento. Chi spende il 18% del suo stipendio per il telefonino e non se ne rende conto non è più umano…”.

Da Web

Il poeta

gennaio 29th, 2009 by admin

Immagine di Liz Micheleto

Si baciarono: erano giovani e innamorati. La sera li avvolgeva in un manto.

Si tennero per mano, per un istante si guardarono negli occhi.

Si tenevano per mano mentre si lanciavano, come volando, nell’ acqua scura che li accolse nel suo abbraccio e nessuno li rivide, mai più.

Tutti si chiesero: “Perché?“. Nessuno trovò la risposta.

“Il loro amore era troppo grande per il mondo in cui sono nati, forse la loro giovinezza era troppo fresca per la terra dove é fiorita. Erano giovani, innamorati, inermi: i figli dovrebbero essere partoriti con una corazza d’ acciaio, ai nostri giorni, a rivestire il cuore intessuto di fili d’ erba ghiacciata dai geli di un troppo lungo inverno.“ disse il nonno di lei, che aveva ottant’ anni ed era poeta. E anche un po’ matto.

Da 50 Racconti brevi brevi, Ellin Selae, 1998

Pour parler

gennaio 28th, 2009 by admin

azzurri ad angolo
acuto
cielo infranto fra le case
negli spazi per la fantasia
apoteosi di una solitudine
ipertecnologica
in lontananza
(invisibile)
un campo nomade abusivo
cuori b(a)raccati

Rose Bazzoli

Il treno

gennaio 23rd, 2009 by admin

 

E il cielo passava sul treno, instancabile.

Nel treno  vivevamo vite serrate  da alba a tramonto e giovinezze  si strangolavano  - fresche si riducevano a manciate di frammenti  vetrosi e opachi -.

Vivevamo nel treno da infanzia a vecchiaia – se si era fortunati si arrivava a diventar vecchi  o forse era quella  la  paura vera -

perché alcuni pensavano che era meglio andarsene prima, darci  un taglio prima che tutto si sfacesse in manciate di cenere

le nostre vite sapevano di cenere, avevano il colore della cenere, così grigie, piatte, uniformi.

Ci mancava lo straordinario

- il colore dell’ aquilone sfuggito di mano, il filo penzolante nell’ aria, che volava sul vento e si perdeva lontano: irraggiungibile, perso… -

ci mancava lo scatto che permette la corsa

ci  mancava la voglia  dell’ andare per vie traverse  dietro a quello che davvero eravamo

ci incontravamo, ci salutavamo,  e il tempo scolpiva i giorni sulle  nostre fronti

Il cielo ci passava sopra

e noi lì, nel treno….

Lo chiamavano “il treno”quel nostro lungo, lunghissimo   rettangolo di cemento sporco, decrepito, ormai fatiscente con tanti piccoli alloggi, uno era il mio,  tutti identici

come  noi eravamo – uguali l’ uno all’ altro -,

come uguali erano i nostri passi su quel selciato smorto,

uguali i nostri giorni ,

un cruciverba  ancora da fare, caselle da riempire   con parole che avessero un senso

un enigma da risolvere

una definizione da trovare

E in tanta incertezza c’ era solo la sua finestra con le tende gialle e leggere e quel vaso di gerani rossi che lei teneva sul davanzale come a farci sperare. Che ci fosse dell’ altro.

Rosaria, occhi e capelli neri e luminosi, era venuta ad abitare al secondo piano, in un tre camere quasi nel centro del treno, con i genitori e il fratello Salvo. Anche loro, come tutti noi, venivano da un paesino del sud e   speravano in una vita migliore, in un lavoro migliore, in cure migliori per la madre malata.

Rosaria ci era comparsa davanti, per la prima volta, una mattina presto, sulle scale, con un litro di latte in una mano e un grosso pezzo di pane nell’ altra. Con un bel sorriso sulla bocca, la frangetta che le accarezzava la fronte, il passo quasi danzante.

Noi, gli operai della fonderia, scendevamo per andare al lavoro. C’ era, ricordo, anche Max. E poi c’ erano Marco, Salvatore, Rocco… Max si fermò e si fece da parte per lasciarla passare. Si guardarono un attimo, ricordo. Lei sorrideva. Uscimmo nella mattina chiara.

Rosaria aveva diciassette anni, all’ epoca. Badava alla casa e alla madre. Il padre e il fratello lavoravano come meccanici. A soldi stavano meglio di tanti di noi. Potevano pagare il medico, non lasciavano i conti in sospeso alla bottega. Non gli tagliarono mai il gas.

Rosaria era alta e flessuosa. Sembrava – ed era, ne sono certo- morbida, come velluto.

C’ era poi il suo modo di andare, – l’ aria che le si muoveva intorno e che faceva pensare ai gelsomini -.

La sentii ridere la prima volta una sera, mentre smontavo dalla bicicletta sotto casa. Una delle sue finestre era proprio sopra la mia testa, due piani sopra. Era una primavera tiepida, i vetri erano aperti, e la risata di Rosaria scivolò lungo il muro, ballò su e giù dai davanzali, un’ armonia limpida   di note. Alta, ricca, freschissima.

Mi accorsi che anche Max era arrivato e guardava all’ insù , verso la finestra aperta, gli occhi socchiusi. Mi fece un cenno, ricordo. Lo salutai.

Sognai Rosaria, quella notte. Per la prima volta.

Verso maggio, mise delle tendine gialle, leggere e iridescenti, parevano ali di farfalla,  alla finestra della sua camera. E sul davanzale posò un vaso di gerani rossi.

Noi, i giovani del treno, guardavamo spesso a quelle tendine e a quei gerani, la sera, dal bar dove ci ritrovavamo dopo cena.

Tanto per far qualcosa.

Tanto per uscire.

Tanto per non stare a crollare di stanchezza davanti alla tv.

Stavamo a crollare di stanchezza al bar.

E l’ occhio scappava alla finestra di Rosaria. Ma nessuno di noi diceva una parola di lei. Ci provò Salvatore una volta.  Non gli demmo corda. Il discorso cadde nel niente.

Rosaria dal passo danzante era una e dieci e cento. Una per ciascuno di noi, a secondo di quello che ciascuno di noi vedeva in lei. Credo.

Per me era l’ immagine della vita. Il cuore della vita. Lo scopo della vita.

Che cosa fosse per gli altri non sapevo.

Che cosa fosse per Max lo capii solo tempo dopo. Ma quella è stata una storia diversa. In un altro mondo.

La incontravo sempre di mattina presto, quando rientrava dalle prime commissioni. Sempre mi chiedevo come facesse a quell’ ora ad essere così fresca e in ordine, ad apparire radiosa, felice.

Felice. Pareva felice.

Spesso la rivedevo la sera quando rientravo. Lei stava sotto casa, abito di cotone, ad aspettare il fratello e il padre, a prendere un po’ d’ aria. Non sembrava che avesse voglia o fretta di fare amicizia con le ragazze o con noi.

Quando il padre e il fratello arrivavano,  si girava veloce e saliva le scale a passo veloce. Una sera inciampò e cadde sui gradini. Si alzò subito. Zoppicò e si appoggiò alla ringhiera di ferro della scala.

Le chiesi: “Fatta male?”

” No, grazie.” Rispose. Rimase ferma, appoggiandosi su un solo piede.

” Bisogno d’ aiuto?” chiesi

” No. Credo di no. Passa subito.”

“Rosaria…” suo padre era subito dietro di me. Mi feci da parte. La vidi sparire dentro casa al braccio del padre.

Non è che fossimo curiosi di sapere di lei.

Che cosa facesse esattamente tutto il giorno, per esempio.

Avremmo forse voluto sapere che sogni aveva, per esempio.

Che ne avesse lo si capiva. Non poteva essere diversamente.

Ne avevo viste tante di persone che avevano perso i sogni per via ed avevano tutte la stessa faccia, lo stesso sguardo, opaco.

Lei invece era piena di sogni. Quali che fossero, le davano colore e profumo.

Non è che fossimo curiosi di sapere di lei.

Ci sarebbe solo piaciuto conoscere qualcosa di lei.

Forse solo per sognarla meglio. Credo che tutti la sognassimo.

Presi ad andare a messa la domenica, la messa delle otto, quella delle vecchie del treno che andavano in chiesa presto, tanto in casa tutti dormivano e loro, sveglie dalle sei, non potevano far niente, per non svegliare figli e nipoti che, quel giorno, volevano dormire fino a tardi.

Si ritrovavano in chiesa, assistevano alla messa e poi, finita la funzione, si fermavano sul sagrato a scambiar due chiacchiere. Così si facevano le nove.

Presi ad andare alla messa delle otto, giusto per vedere Rosaria, unica giovane in quel mare di volti avvizziti, grigi e stanchi. Mi mettevo in fondo. Vedevo la sua schiena dritta, i suoi capelli lisci.

Mi ritrovai a pregare. Dio, ti prego, …

Aspettavo che uscisse. Facevo in modo d’ intercettarla sulla porta. Ci salutavamo. A lunghe falcate attraversava il sagrato, salutava le vecchie e spariva all’ interno del treno. Poco dopo, si aprivano gli scuri della sua finestra, e lei ritirava il geranio per liberare il davanzale e poter mettere all’ aria le lenzuola. Braccia piene e luminose. 

Guardavo in su, cercavo i suoi occhi. Mi vedeva. Faceva un saluto veloce con la mano.

Quella domenica, trovai Max davanti al treno.  Aspettava, disse, un amico. Con l’ auto. Per una gita a Cesenatico. Anche lui alzò gli occhi quando Rosaria aprì la finestra. Lei sorrise, a tutti e due. Ma guardò Max.

Non so come accadde. So che fra tutti noi del treno, Rosaria scelse Max. Alto, dinoccolato, occhi azzurri, sigaretta fra le labbra, di poche parole. Un musone, quasi. Che non amava ridere, scherzare, giocare a biliardo. Con lo sguardo un po’ perso, dove non si capiva. Max che lavorava in fonderia di giorno e di notte riempiva di parole certi quaderni neri con l’ orlo rosso. Li teneva impilati su una mensola della camera da letto. Non ne parlava mai. Noi lo sapevamo perché sua madre lo aveva detto alla fornaia. La voce s’ era sparsa, fra una pagnotta e un filone.

Max scriveva. Di che cosa? E che cosa diceva poi?  Me l’ ero chiesto spesso. Quello che mi colpiva di più era il fatto che riuscisse a scrivere di qualunque cosa scrivesse, vivendo la vita che viveva.

Così sacrificata. Una vita stretta.

Così qualunque. Niente di straordinario a movimentarla.

Così uguale, un giorno come l’ altro. Sempre la stessa.

Che cosa poteva mai mettere sulla carta?

Forse  solo il desiderio di essere altrove. Di essere un altro.

Rosaria s’ innamorò di lui e lui di lei. 

Si sposarono. Ci fu festa grande quel giorno.

Rimasero a viverci, nel treno. Ci fecero due figli. Non so se ci stanno ancora.

Non lo so, perché, ad un certo punto, io me ne andai. Tornai al paese da dove ero partito, un ragazzo appena, in cerca di fortuna. Tornai a ritrovare il profumo degli agrumeti e il sapore del mare. Almeno quelli.

Da molto tempo non sogno più Rosaria. Ma ancora mi torna alla mente e  la rivedo lì,  sulla soglia, sorridente. Un’ apparizione che non vuole diventare ricordo.

So che Max continuò a scrivere quei suoi quaderni, la notte. E adesso so di che cosa scriveva, perché ne hanno fatto un libro, alla fine, delle sue carte.

Il libro  incomincia così: Il cielo passava sul treno, instancabile…

Nel buio

gennaio 23rd, 2009 by admin

Francesco Giacomazzi, Donna seduta

Seduta, guardo
la vita
che corre

la notte

sfrigolando       
lungo i cavi
dell’alta tensione
e le stelle
sono solo scintille di fuoco.

Da: Con ali raccolte

Clessidra

gennaio 21st, 2009 by admin

Fabio Beconcini, Tempo

Sabbia fine pungente
punte di spillo
portate dal vento
a limar la pelle del volto,
sabbia dorata
ricopri
poi
scopri
pene e ricordi:
tarli nel legno
sabbia di legno sul pavimento
son orme lasciate
mai cancellate.

Ieri

gennaio 16th, 2009 by admin

Ombra che il tendine allenta

del giorno e i colori


in nebbia sfuma

pesi riporta grevi
all’ occhio del lampione


dove la via s’ incunea

stretta
fra i muri persi al cielo

e notte, scura notte

di lunastelle,

preme e incalza
,
il nome chiama


di un ieri
senza volto.