Il treno

gennaio 23rd, 2009 by admin

 

E il cielo passava sul treno, instancabile.

Nel treno  vivevamo vite serrate  da alba a tramonto e giovinezze  si strangolavano  - fresche si riducevano a manciate di frammenti  vetrosi e opachi -.

Vivevamo nel treno da infanzia a vecchiaia – se si era fortunati si arrivava a diventar vecchi  o forse era quella  la  paura vera -

perché alcuni pensavano che era meglio andarsene prima, darci  un taglio prima che tutto si sfacesse in manciate di cenere

le nostre vite sapevano di cenere, avevano il colore della cenere, così grigie, piatte, uniformi.

Ci mancava lo straordinario

- il colore dell’ aquilone sfuggito di mano, il filo penzolante nell’ aria, che volava sul vento e si perdeva lontano: irraggiungibile, perso… -

ci mancava lo scatto che permette la corsa

ci  mancava la voglia  dell’ andare per vie traverse  dietro a quello che davvero eravamo

ci incontravamo, ci salutavamo,  e il tempo scolpiva i giorni sulle  nostre fronti

Il cielo ci passava sopra

e noi lì, nel treno….

Lo chiamavano “il treno”quel nostro lungo, lunghissimo   rettangolo di cemento sporco, decrepito, ormai fatiscente con tanti piccoli alloggi, uno era il mio,  tutti identici

come  noi eravamo – uguali l’ uno all’ altro -,

come uguali erano i nostri passi su quel selciato smorto,

uguali i nostri giorni ,

un cruciverba  ancora da fare, caselle da riempire   con parole che avessero un senso

un enigma da risolvere

una definizione da trovare

E in tanta incertezza c’ era solo la sua finestra con le tende gialle e leggere e quel vaso di gerani rossi che lei teneva sul davanzale come a farci sperare. Che ci fosse dell’ altro.

Rosaria, occhi e capelli neri e luminosi, era venuta ad abitare al secondo piano, in un tre camere quasi nel centro del treno, con i genitori e il fratello Salvo. Anche loro, come tutti noi, venivano da un paesino del sud e   speravano in una vita migliore, in un lavoro migliore, in cure migliori per la madre malata.

Rosaria ci era comparsa davanti, per la prima volta, una mattina presto, sulle scale, con un litro di latte in una mano e un grosso pezzo di pane nell’ altra. Con un bel sorriso sulla bocca, la frangetta che le accarezzava la fronte, il passo quasi danzante.

Noi, gli operai della fonderia, scendevamo per andare al lavoro. C’ era, ricordo, anche Max. E poi c’ erano Marco, Salvatore, Rocco… Max si fermò e si fece da parte per lasciarla passare. Si guardarono un attimo, ricordo. Lei sorrideva. Uscimmo nella mattina chiara.

Rosaria aveva diciassette anni, all’ epoca. Badava alla casa e alla madre. Il padre e il fratello lavoravano come meccanici. A soldi stavano meglio di tanti di noi. Potevano pagare il medico, non lasciavano i conti in sospeso alla bottega. Non gli tagliarono mai il gas.

Rosaria era alta e flessuosa. Sembrava – ed era, ne sono certo- morbida, come velluto.

C’ era poi il suo modo di andare, – l’ aria che le si muoveva intorno e che faceva pensare ai gelsomini -.

La sentii ridere la prima volta una sera, mentre smontavo dalla bicicletta sotto casa. Una delle sue finestre era proprio sopra la mia testa, due piani sopra. Era una primavera tiepida, i vetri erano aperti, e la risata di Rosaria scivolò lungo il muro, ballò su e giù dai davanzali, un’ armonia limpida   di note. Alta, ricca, freschissima.

Mi accorsi che anche Max era arrivato e guardava all’ insù , verso la finestra aperta, gli occhi socchiusi. Mi fece un cenno, ricordo. Lo salutai.

Sognai Rosaria, quella notte. Per la prima volta.

Verso maggio, mise delle tendine gialle, leggere e iridescenti, parevano ali di farfalla,  alla finestra della sua camera. E sul davanzale posò un vaso di gerani rossi.

Noi, i giovani del treno, guardavamo spesso a quelle tendine e a quei gerani, la sera, dal bar dove ci ritrovavamo dopo cena.

Tanto per far qualcosa.

Tanto per uscire.

Tanto per non stare a crollare di stanchezza davanti alla tv.

Stavamo a crollare di stanchezza al bar.

E l’ occhio scappava alla finestra di Rosaria. Ma nessuno di noi diceva una parola di lei. Ci provò Salvatore una volta.  Non gli demmo corda. Il discorso cadde nel niente.

Rosaria dal passo danzante era una e dieci e cento. Una per ciascuno di noi, a secondo di quello che ciascuno di noi vedeva in lei. Credo.

Per me era l’ immagine della vita. Il cuore della vita. Lo scopo della vita.

Che cosa fosse per gli altri non sapevo.

Che cosa fosse per Max lo capii solo tempo dopo. Ma quella è stata una storia diversa. In un altro mondo.

La incontravo sempre di mattina presto, quando rientrava dalle prime commissioni. Sempre mi chiedevo come facesse a quell’ ora ad essere così fresca e in ordine, ad apparire radiosa, felice.

Felice. Pareva felice.

Spesso la rivedevo la sera quando rientravo. Lei stava sotto casa, abito di cotone, ad aspettare il fratello e il padre, a prendere un po’ d’ aria. Non sembrava che avesse voglia o fretta di fare amicizia con le ragazze o con noi.

Quando il padre e il fratello arrivavano,  si girava veloce e saliva le scale a passo veloce. Una sera inciampò e cadde sui gradini. Si alzò subito. Zoppicò e si appoggiò alla ringhiera di ferro della scala.

Le chiesi: “Fatta male?”

” No, grazie.” Rispose. Rimase ferma, appoggiandosi su un solo piede.

” Bisogno d’ aiuto?” chiesi

” No. Credo di no. Passa subito.”

“Rosaria…” suo padre era subito dietro di me. Mi feci da parte. La vidi sparire dentro casa al braccio del padre.

Non è che fossimo curiosi di sapere di lei.

Che cosa facesse esattamente tutto il giorno, per esempio.

Avremmo forse voluto sapere che sogni aveva, per esempio.

Che ne avesse lo si capiva. Non poteva essere diversamente.

Ne avevo viste tante di persone che avevano perso i sogni per via ed avevano tutte la stessa faccia, lo stesso sguardo, opaco.

Lei invece era piena di sogni. Quali che fossero, le davano colore e profumo.

Non è che fossimo curiosi di sapere di lei.

Ci sarebbe solo piaciuto conoscere qualcosa di lei.

Forse solo per sognarla meglio. Credo che tutti la sognassimo.

Presi ad andare a messa la domenica, la messa delle otto, quella delle vecchie del treno che andavano in chiesa presto, tanto in casa tutti dormivano e loro, sveglie dalle sei, non potevano far niente, per non svegliare figli e nipoti che, quel giorno, volevano dormire fino a tardi.

Si ritrovavano in chiesa, assistevano alla messa e poi, finita la funzione, si fermavano sul sagrato a scambiar due chiacchiere. Così si facevano le nove.

Presi ad andare alla messa delle otto, giusto per vedere Rosaria, unica giovane in quel mare di volti avvizziti, grigi e stanchi. Mi mettevo in fondo. Vedevo la sua schiena dritta, i suoi capelli lisci.

Mi ritrovai a pregare. Dio, ti prego, …

Aspettavo che uscisse. Facevo in modo d’ intercettarla sulla porta. Ci salutavamo. A lunghe falcate attraversava il sagrato, salutava le vecchie e spariva all’ interno del treno. Poco dopo, si aprivano gli scuri della sua finestra, e lei ritirava il geranio per liberare il davanzale e poter mettere all’ aria le lenzuola. Braccia piene e luminose. 

Guardavo in su, cercavo i suoi occhi. Mi vedeva. Faceva un saluto veloce con la mano.

Quella domenica, trovai Max davanti al treno.  Aspettava, disse, un amico. Con l’ auto. Per una gita a Cesenatico. Anche lui alzò gli occhi quando Rosaria aprì la finestra. Lei sorrise, a tutti e due. Ma guardò Max.

Non so come accadde. So che fra tutti noi del treno, Rosaria scelse Max. Alto, dinoccolato, occhi azzurri, sigaretta fra le labbra, di poche parole. Un musone, quasi. Che non amava ridere, scherzare, giocare a biliardo. Con lo sguardo un po’ perso, dove non si capiva. Max che lavorava in fonderia di giorno e di notte riempiva di parole certi quaderni neri con l’ orlo rosso. Li teneva impilati su una mensola della camera da letto. Non ne parlava mai. Noi lo sapevamo perché sua madre lo aveva detto alla fornaia. La voce s’ era sparsa, fra una pagnotta e un filone.

Max scriveva. Di che cosa? E che cosa diceva poi?  Me l’ ero chiesto spesso. Quello che mi colpiva di più era il fatto che riuscisse a scrivere di qualunque cosa scrivesse, vivendo la vita che viveva.

Così sacrificata. Una vita stretta.

Così qualunque. Niente di straordinario a movimentarla.

Così uguale, un giorno come l’ altro. Sempre la stessa.

Che cosa poteva mai mettere sulla carta?

Forse  solo il desiderio di essere altrove. Di essere un altro.

Rosaria s’ innamorò di lui e lui di lei. 

Si sposarono. Ci fu festa grande quel giorno.

Rimasero a viverci, nel treno. Ci fecero due figli. Non so se ci stanno ancora.

Non lo so, perché, ad un certo punto, io me ne andai. Tornai al paese da dove ero partito, un ragazzo appena, in cerca di fortuna. Tornai a ritrovare il profumo degli agrumeti e il sapore del mare. Almeno quelli.

Da molto tempo non sogno più Rosaria. Ma ancora mi torna alla mente e  la rivedo lì,  sulla soglia, sorridente. Un’ apparizione che non vuole diventare ricordo.

So che Max continuò a scrivere quei suoi quaderni, la notte. E adesso so di che cosa scriveva, perché ne hanno fatto un libro, alla fine, delle sue carte.

Il libro  incomincia così: Il cielo passava sul treno, instancabile…


5 Responses to “Il treno”

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  1. 1 rose

    Come ho riletto volentieri questo racconto, daniela!
    Hai saputo delineare così bene l’ambiente, questa figura di ragazza e i sentimenti del narratore. Un mondo che si è perso anche questo, sostituito da quartieri ancora più squallidi, abitati da nuovi poveri e nuovi ‘schiavi’.
    Ammiro sempre la tua capacità di calarti nei vari personaggi. Brava!

  2. 2 admin

    dove l’ avevo postato, Rose? Help! mi ricordo d’ averlo mandato a Schifanoia l’ anno passato, … Sono contenta che ti sia ri-piaciuto! :) ))

  3. 3 rose

    Forse l’ho letto lì, daniela. Non era stato pubblicato su lettori?

  4. 4 franco

    Il cielo passava sul treno, instancabile.

    Sembra un paradosso,
    invece, come spesso accade, è la realtà ad essere paradossale, a stabilire le condanne della vita, i suoi rari riscatti, i suoi percorsi, troppo spesso, obbligati.

    Percorsi come rotaie appunto, in cui quei casermoni, i nostri margini, inchiodano esistenze.

    Recita una canzone “uno su mille ce la fa”.
    Il protagonista è di questi, ha trovato parole e ne ha fatto memoria, ha trovato anche l’amore e l’ha reso speranza, per lui e per tutti i viaggiatori di questo perenne andare e trascorrere del cielo.

    E’ davvero uno splendido racconto.

    f

  5. 5 admin

    Grazie, Franco! ti sono grata davvero per l’ amicizia che mi dimostri.