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Le pareva che le foglie dei pioppi avessero preso un colore sfumato d’ azzurro, anzi, le vedeva azzurre, proprio azzurre. Si confondevano con il cielo, delimitate solo dal delicato contorno che finiva (o incominciava?) a punta, luminescente com’ era, quasi argenteo.
Era seduta sulla panchina di legno, una delle tante disseminate nel grande parco; a terra, ai suoi piedi, stava il cane, testa eretta, attento. Gli toccò il naso (umido, come doveva essere), gli grattò l’ orecchio destro. Il cane chinò il capo, assecondando il gesto. Gli era sempre piaciuta la grattatina all’ orecchio. Lei guardò innanzi a sé: una distesa di prato verde, un leggero dosso, e poi alberi, alberi e ancora alberi, pioppi, larici, cedri, fino all’ argine del fiume.
Era mattino presto, non c’ era nessuno, non si sentiva una voce e l’ aria estiva era fresca. Le parve di coglier un profumo di tiglio. Sentiva il sangue scorrere pigro dentro di lei come un fiume che allenta la sua corsa, prendendo fiato. Ne aveva bisogno, lei, di riprendere fiato, di fermarsi un poco. Avrebbe voluto costruirsi un nido di bei pensieri e dimenticare il resto.
Che poi il resto era l’ ordinarietà di quei suoi giorni identici, il niente di un tempo che se ne va senza scosse, niente amicizie vere, niente affetti profondi, neppure una qualche attività svolta con passione: niente, insomma. Solo un guscio ben vestito, ben presentabile, ma dentro né tuorlo né albume, né gheriglio, una scorza che nel tempo s’ era fatta da lucida e trasparente, pronta ad accogliere le pulsioni e le forze e, perché no?, le lusinghe che le venivano dall’ esterno, rigida, dura, refrattaria: ostile.
Ma ora doveva dar battaglia. Tempo prima aveva piantato paletti e aveva teso fra l’ uno e l’ altro una recinzione. Vi si era rinchiusa: di qui non si passa. Qui non si entra. Aveva dato un deciso giro di chiave al lucchetto. La sua battaglia contro l’ intrusione si era risolta in una barricata. Loro erano rimasti fuori, a deriderla, schernirla, pungolarla con i pali aguzzi dell’ estraneità. Poiché lei era una diversa che non accettava la sinuosa intrusione dell’ omologazione a schemi prefissati, il venir quotidianamente crocifissa al gusto per l’ esteriormente accettabile, li aveva ignorati.
Ed allora erano iniziate le suppliche. I pianti. Si era tappata le orecchie per non sentire.
Erano diventati subdoli: fingevano di andarsene, sperando che lei uscisse e, poiché lei non lo faceva, ricomparivano all’ improvviso, schiamazzanti, frenetici. Lei allora accarezzava l’ orecchio di Kuma e si perdeva nel dorato dei suoi occhi. Un cane può difendere da un aggressore. Quella mattina loro non c’ erano attorno al recinto che nel tempo lei aveva rinforzato con giri di filo spinato e aguzzi frammenti di vetro. Poteva respirare tranquilla, senza affanno, in un’ aria così limpida che si poteva scordare che era inquinata, sotto un cielo così chiaro, velato di lattee trasparenze, che si poteva non pensare al buco dell’ ozono.
Ascoltava il fruscio di fili d’ erba smossi da un merlo, da un passero, chissà e non le venivano in mente se non paesaggi antichi di spontanee fertilità.
Una rondine sfrecciò in alto, un miracolo ad ali tese.
Incominciò ad un tratto a parlare, piano, rivolta al cane, al suo cuore e alle ombre che rapide prendevano forma fuori dal recinto.
“Ho creduto che sarebbe bastato. Ma mi state addosso. Premete contro il filo spinato. Mi volete. E allora, io uscirò. Guardate: sono qui. Apro. Ecco: sono fuori.”
Si alzò in piedi. Il cane si levò di colpo mettendosi al suo fianco.
“Sono qui. Prendetemi, se ci riuscite.”
Incominciò a correre e il cane con lei per il prato verde che pareva non aver fine e, mentre correva, rideva a piena gola. Rideva con la bocca, con gli occhi, con ogni centimetro di carne, con tutta la sua mutilata individualità.
Il cane la superò, saltò un tronco a terra e si girò, aspettandola. Lei si era fermata, ansante. Rideva ancora e mille farfalle uscivano dalla sua bocca, dai suoi occhi: i pensieri agonizzanti, i sogni smarriti, le aspettative tradite lasciavano il campo di una battaglia perduta e si trasformavano in palpitanti schegge di vita: la strada percorsa a tentoni, era punteggiata da ali tremule, in volo. Finalmente.
Matisse, Il lanciatore di coltelli
Esistono i lanciatori di coltelli, o almeno, esistevano. Dico esistevano, perché la mia esperienza del mondo circense risale a tanti, ma proprio tanti anni addietro e penso che le cose potrebbero essere cambiate.
Comunque, c’ erano gli artisti del lancio del coltello capaci di delimitare, lama dopo lama, il contorno della generalmente bella signorina, che se ne stava immobile, come stampata a far da sagoma per il lanciatore.
Ma esistono anche le lanciatrici di lumache: una sola su tutta quanta la terra, per quello che ne so, e vive proprio di fianco a me.
Torno a casa, dopo un pomeriggio in un Iper a caccia di generi destinati alla sopravvivenza alimentare della famiglia, scarico l’ auto, salgo le scale, apro la porta, appoggio le buste a terra, tolgo l’ allarme, incomincio ad aprire gli scuri, uno, due, tre, fino alla la portafinestra. Accompagno il battente fino al muro, l’ aggancio e l’ occhio mi va su un misero mucchietto di viscida poltiglia e guscio rotto.
Ancora, dico.
Di nuovo, mi ripeto.
Un’ altra lumaca vittima di una faida di confine di cui ignoro, da sempre, il motivo.
Mi pare di vedere la scena: casa chiusa, deduzione logica: non c’ è nessuno.
Lei, la lanciatrice furtiva, passo passo, trova una lumaca, neanche grossa, peccato.
Le fa: cosa ci stai a fare qui, fuori da casa mia! la prende, la guarda un momento, la lumaca s’ è tutta rintanata nel guscio, un tremito di antenne.
Ti faccio vedere, ti faccio!
E poiché a un quindici metri ci sta il muro della casa dei confinanti, va proprio sul limite, così è più vicina, il lancio sarà più potente e tira la lumaca, centra il muro, ovviamente, poi si gira senza sentire il lieve scricchiolio del guscio e senza vederlo cadere a terra proprio a fianco della portafinestra chiusa. Così imparano. Tutti quanti: le lumache a insidiare la sua insalata, i vicini a stare lì, proprio di fianco a lei. Gentaglia. Le hanno fatto notare che sarebbe il caso, che innaffiando, non tirasse acqua e fango sul tetto dell’ auto parcheggiata, sul cancello automatico del garage, sul bucato steso. Chi si credono d’ essere?
A casa mia faccio quel che mi pare.
Doveva essere andata così. La settimana prima si era prodotta in un altro lancio centrando la porta della cantina, sempre quando ero stata via tutto il pomeriggio.
Guardo ancora i resti sbrodolati della lumaca, guardo il muro schizzato. Non fa niente, pulisco.
D’ improvviso mi sale una gran rabbia. La sento arrivare dal fondo dello stomaco, dal lontano di cinque anni passati a chiedere, per favore, può badare a non bagnarmi il bucato? può, per cortesia, non buttarmi terra davanti al garage? Per favore. Per cortesia. Le spiacerebbe…?
Vedo, in un attimo, lumache e lumachine sacrificate, così, per un niente di ostilità, di ignoranza, di rabbia, di presunzione.
La lanciatrice è lì sdraiata nel suo giardino che si gode il sole, dopo la fatica.
Sento che la bocca mi si apre. Mi sento dire a voce a l t i s s i m a: Ehi, tu!
La voce supera la siepe, si schianta sul viso pallido e corrucciato dell’ artista. Che si guarda attorno, in un momento di panico. Fa per alzarsi dalla sdraio, ricade, punta i piedi, si tira su alla fine, si gira, grinta ostile in bella vista, e il moccio che era stata una lumaca la colpisce direttamente fra gli occhi. Sempre avuta una splendida mira, io.
Entro in casa. Dovrò mettere sale ai quattro angoli del giardino. Che Dio perdoni la superstizione.
Intanto metto i surgelati in frigo.
Intanto porto da mangiare alle tortore stremate dall’ inverno.
e al pettirosso che ormai si è talmente abituato a me che mentre gli sbriciolo il pane, mi saltella fra i piedi. Intanto.
E se mai ci sarà un’ altra lumaca spiaccicata, gliela farò ingoiare, fino all’ ultimo briciolo di guscio.
Giuro.
Ma adesso io, ecco, guarda, no dico, guarda bene mi prendo le mie…, come le hai chiamate? carabattole? Sì, carabattole. E me ne vado. Non c’ è bisogno che tu dica altro, che tu faccia altro. Vado via. Va bene così? Ti lascio casa libera e vorrei fare terra bruciata dietro di me. Perché questo è il disastro vero. Che anche quando sarò lontana, tu sarai con me. Tu, la tua presenza soffocante, il tuo amore, se amore è stato tutto questo.
Questo volermi tenere imbavagliata, legata alle tue aspettative, questo volere che io viva la tua vita senza nessun rispetto per la mia.
Perché anch’ io ho una mia idea di vita, sai?
E se le mie idee non corrispondono alle tue, non credo tu abbia il diritto di calpestarle.
Lo so. Lo so. Il dovere.
Ho il dovere di conformarmi. Lo hai sempre detto. Lo hai strillato da sempre.
No.
Ecco. Adesso te lo dico chiaro e tondo. Io non sto più a questo gioco.
Che cosa? Che cosa dici? Tu ti sei conformata sempre?
Mi spiace per te. Hai mai pensato d’ aver sbagliato?
No? Sicura? Sei sicura? Pensaci.
Non sbagliavi anche quando, così scontenta, ti rinchiudevi a riccio intorno alle tue convinzioni, nell’ alone giallognolo dell’ insoddisfazione, del timore del mondo reale, tutta tesa a dar corpo a infinite malinconie? A trasmettere infinite malinconie.
Guarda fuori: piove. E’ una giornata d’ autunno, è giusto che piova. Ma tu solo questo vedi, che piove. Non vedi i colori che son tutti una fiamma e ti aspetti che anch’ io veda sola l’ acqua che bagna il grigio.
Sai quante volte avrei voluto uscire con tuta e scarpe da ginnastica e il cappuccio ben stretto intorno al capo e allacciato intorno alla gola per andarmene sotto gli alberi con tutte le loro foglie dorate, giallo oro, rossastre, attaccate ancora con un filo di vita al ramo, così tremule e tenaci e camminare lontano dalle luci dei viali, lontano dalle vetrine dei negozi, e comprare al forno che sta là in fondo, verso la Madonnina, un pezzo di crescenta, magari una piadina, e mangiarla calda mentre mi pioveva addosso?
Il raffreddore, dici? Mi sarei presa il raffreddore. Forse. Può anche darsi di no.
Ecco, vedi: non posso più continuare ad aspettare la tegola che tu da sempre dici mi cadrà sulla testa. Se non farò la brava bambina coscienzosa. Ho camminato troppo a lungo a testa bassa, incassata fra le spalle, magre, sì lo so, ho le spalle magre, c’ è di peggio, e adesso non intendo continuare più.
No, non dire altro. Perché delle cose che forse non capisci, che di certo non condividi, sai vedere solo il lato negativo. Non ne hai il diritto, di spaventarmi. Di frastornarmi con quello che capiterà, potrebbe capitare, non si sa se capiterà, ma comunque bisogna comportarsi come si fosse sicuri che capiterà.
Che la maledetta tegola cadrà. Alla fine cadrà e mi centrerà in testa. Se non farò come dici tu. Se non sarò come sei tu.
Credimi, non posso continuare.
Non è una ribellione. Non temere. Non mi rivolto contro di te. Tu hai creduto di far bene. Ne sono certa. Ma mi hai distrutta. Quasi.
Io voglio uscire di qui con le mie carabattole e andare via, sì, lo so, là dove vado, non sarà tutto tranquillo.
Il pericolo? Forse.
La guerra? Forse.
Ma io devo andare e devo farlo adesso. No, non rimando. Non ho bisogno di pensarci ancora un po’ su. Laggiù la gente crepa ogni minuto. E io non posso perdere neanche un altro minuto.
Tu? Ah. Attenta. La stai mettendo sul ricatto. La stai mettendo ancora sul dovere. Il mio dovere verso di te. Ma tu non sei l’ ombelico del mondo.
Guarda, ti voglio bene, ma tu non sei l’ ombelico del mondo.
Con quello che hai fatto per me? Sono un’ ingrata?
Ecco, sì: dal tuo punto di vista. Senz’ altro sì. Ma è solo che nei miei panni, tu non vuoi metterti. So che è difficile. Per te è impossibile.
Io sono diversa da te. Accettalo. E’ un dato di fatto. Io devo sentirmi utile. Capisci? Utile. Concretamente.
Per questo vado. Non per ripicca. Non perché non ti voglia bene.
Ti sono grata per avermi permesso di nascere.
Ti chiedo solo di permettermi di vivere. A modo mio. Come mi sento di fare. Di lottare per quello in cui credo.E io credo in questa mia volontà di lasciare quello a cui tu hai sempre guardato come un modo sicuro di passare il tempo e di rischiare, sì, di rischiare questa tranquillità senza scosse per qualcosa che sento come meraviglioso. Aiutare a costruire, magari da zero, una possibilità di futuro laggiù, dove nessuno ha niente.
Il tuo dolore? No. Non parlare del tuo dolore. Della tua paura. Non soffocare questa cosa che mi spinge a partire, per andare a guardare fisso negli occhi la la miseria e la desolazione.
Hai voluto che facessi la volontaria per te, a tutto servizio, figlia e dama di compagnia. Sempre corretta, carina, disponibile, senza volontà propria. Lo sono stata tutto questo tempo. Ma adesso io vado. Sento che è giusto così. Per me. Vedi, non puoi costruire cancelli alti abbastanza per fermarmi. Il mio sogno è sempre stato questo.
Ecco. Sono pronta. Le mie carabattole sono tutte qui. Ho addosso i jeans. Ho in mano la mia sacca. E’ la mia divisa.
Come? Ah, ecco. Ma so anche questo. Non sono più giovane. Già.
Ho passato tanto di quel tempo qui con te, a cercare di adeguarmi al tuo stile di vita. Ci ho messo tanto di quel tempo a capire che non era giusto quello che mi stavi facendo.
Che non era giusto quello che mi stavo facendo.
Ma io adesso ho capito e me ne vado. D’ altra parte tu non puoi più fare niente per fermarmi.
Non puoi più piangere.
Strillare.
Farmi sentire in colpa.
Alla fin fine, ho fatto sempre quello che ti aspettavi facessi. Io sono a posto con me stessa. So d’ essere stata ricattata per tutto questo tempo. So di non avere avuto la forza di ribellarmi. Avrei dovuto. Trovarla, questa forza. Ma tant’ è. E’ andata così.
Adesso ti guardo in questa foto. Sei in posa. Elegante. Una signora. Lo sei sempre stata.
Lo eri anche nella bara, con il tuo bell’ abito di seta. Una signora.
Lo capisci adesso, là dove ti trovi, che mi devi lasciare andare? Che devi smetterla di sussurrarmi all’ orecchio le solite frasi, ormai vecchie e stantie?
Chi porterà fiori sulla tua tomba? ancora chiedi.
Smettila. Non ti sento.
Ecco, apro la porta, finalmente, sì lascio la tua foto qui, sulla consolle. Sì, chiudo bene la porta. Non ti preoccupare. I ladri non entreranno. D’ altra parte qui troverebbero solo, di prezioso, l’ odore dei miei anni spesi a modo tuo. Della mia giovinezza andata. Depredata? Il resto sono solo argenti e quadri e porcellane e mobili antichi. Che non contano. Hanno mai contato? Comunque io non starò qui, fedele e devota, a far la guardia al tuo mondo. Il tuo mondo. Non il mio.
L’ ascensore scende.
Consegno le chiavi al portiere.
Un attimo. E sono fuori. Sotto la pioggia.
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Vladimir Kush, Heavenly Fruits
Sabato pomeriggio. Primavera. L’ aria è tiepida. Il sole già caldo.
Me ne sto fuori casa, nel quadrato di terra sul retro della villetta a schiera dove abito da quando io e Laura ci siamo sposati, saranno un nove anni, dandomi da fare con la falciatrice. Mi aspetta un monte di lavoro da fare. O almeno credo. Non che mi dispiaccia. Però penso a quanti fine settimana sacrificati ci vorranno a fare il lifting post invernale a quello sputo di verde. Risistemare tutto come piace a me, e a me piacciono le cose fatte con cura, proprio bene, se no non c’ è senso a farle, le cose. Tutto per potere alla fine sistemare tavolino, sedie e amaca in una cornice linda, ordinata, con il prato che doveva apparire come spazzolato, con i fiori nei vasi collocati con simmetria e la piccola aiuola a forma di O perfettamente delineata. Mi innervosisco al pensiero. Niente gite in bici per, diciamo, tre fine settimana. Chiuso in quei 70 metri e la schiena è già indolenzita. Si deve fare. Perciò l’ avrei fatto. So che per i mesi a venire avrei continuato a controllare che tutto fosse a posto. Avrei corretto eventuali sbavature, sforbiciato, potato, concimato. Non un hobby, ma una specie di condanna. O semplicemente una mania. Ognuno ha le sue, d’ altra parte.
C’ è di peggio comunque. E devo mettere in conto anche la soddisfazione che avrei provato a lavoro finito. Mi do dunque da fare. Me ne sto a falciare, quando mia moglie esce di casa, mi si avvicina. Spengo la falciatrice. Lei mi dice: “Ha telefonato Enzo.”
Enzo. Vecchio amico, ex compagno di scuola, rimasto vedevo un due mesi prima. Al funerale, quasi non l’ avevo riconosciuto, stravolto dal dolore com’ era. Povero Enzo.
“E…?” chiedo a mia moglie. Ha da sempre la caratteristica di far cadere una, due parole e poi zittirsi. Come in attesa dello stimolo a concludere il discorso con qualcosa di sensato.
“Ha chiesto se domani siamo a casa.”
“E….?”
“Gli ho detto di sì.”
Non dico “E…?”
Lei aggiunge ugualmente: “Ci viene a trovare. A pranzo.”
Perfetto. Enzo viene a trovarci. Domenica. E si porta appresso tutto il bagaglio del suo dolore, della sua solitudine, della sua paura,. Quel che ci vuole a inizio primavera. Le rondini tornano al nido appeso alla grondaia.
Sia chiaro. Mi era dispiaciuto per lui. Sapevo che era molto legato alla moglie. Sapevo che non avevano figli. Mi rendo conto che deve essere per lui un gran brutto momento. Ma è la vita che va così. Io non c’ entro. Non ne sono responsabile. Diciamo la verità, nel tempo, i legami s’ erano allentati fra noi, lavori diversi, interessi diversi, posizioni diverse. Più che altro erano rimaste amiche le mogli. Si vedevano, andavano a far spese insieme, si telefonavano, robe da donne. Ma io potevo stare lunghi periodi, senza neanche sentirlo, Enzo. Quasi da dimenticarmi che esistesse. E sarebbe venuto a casa mia l’ indomani.
L’ idea mi infastidisce. Avrei dovuto assumere un’ espressione dolente? Fare un viso da circostanza? Fare finta di niente e parlare del più e del meno? Di sport? Di politica? Che cosa può fregargli a uno con un peso così da portare, dello sport e della politica? Che poi sono sempre la stessa menata.
“Devo andare a fare un po’ di spesa.” Dice mia moglie. “Prendo la macchina.”
Se ne rientra in casa.
“Dici che faccio un arrosto domani?” è di nuovo sulla soglia.
“Sì. Perché no?”
“Non so. Potrei preparare gli involtini. Marta diceva che gli piacevano.”
E allora, no. Niente involtini. Ci manca solo che gli metti sotto il naso il piatto preferito, magari proprio come glielo faceva la moglie.
“Niente involtini.”
“Arrosto?”
“Arrosto.”
“Con le patate?”
“Con le patate.”
Se ne va. Sento il motore dell’ auto. Sento che si allontana. Riaccendo la falciatrice. Accidenti anche al povero Enzo. Devo andare al consorzio. Mi occorrono dei vasi e della terra. Voglio anche qualche pianta di gerani. Rossi. Mi infastidisce pensare a come sarà domani. Mi vergogno un po’ di sentirmi così maldisposto. Insensibile? Egoista? Ma no. Sono solo un uno come tanti: casa, lavoro, rogne fisse e rogne saltuarie, deluso un giorno sì e l’ altro pure, ansioso, puntiglioso, perfettino nelle mie cose, a proposito come faccio a andare al consorzio che la macchina l’ ha presa lei? La macchina da strapazzo, da spesa, da carico e scarico. Non posso certo andare a impilare sacchi di terra nel baule dell’ auto grande, quella “buona”. Porca miseria. Dovrò aspettare che ritorni, lei con l’ arrosto e le patate e tutto quanto il pranzo per il povero Enzo.
Domenica, sono le 12, 30 quando Enzo parcheggia la sua Fiat davanti al cancello di casa. Lo vedo dalla finestra della saletta. Parcheggiare con cura, spegnere il motore, cincischiare brevemente in zona cruscotto, scendere dall’ auto, darsi una lisciata ai risvolti della giacca, ma perché diavolo s’ è messo in completo blu, con tanto di cravatta e trench sul braccio? E’ domenica, il giorno benedetto dei jeans e della maglia sportiva. Lo vedo aprire lo sportello posteriore, infilarvi il braccio e ritirarlo con nella mano un gran mazzo di fiori, l’ omaggio per la padrona di casa. E’ un po’ più grigio, un po’ più stempiato, ma il passo è sicuro, il piglio deciso. Cosa mi aspettavo? L’ uomo che avevo visto al funerale, in peggio. Invece noto una certa ripresa. “Bene, mi dico. Sono contento per lui. Povero cristo.”
Apro la porta, sorrido, gli tendo la mano, arriva mia moglie, si tuffa nel mazzo di fiori, ringrazia, non ti dovevi disturbare, lei, è stato un piacere, lui, a me scappa anche una pacca sulla spalla. La tavola è apparecchiata, Laura ha tirato fuori il servizio buono, quello con i decori blu, i bicchieri azzurri, le posate nuove, c’ è profumo di arrosto nell’ aria. Offro un aperitivo, un’ acquetta leggera da supermercato, niente roba sofisticata. Laura tira fuori una coppetta di chips e una di olive. Beviamo, nessuno tocca le olive e le chips. Andiamo a tavola, parliamo divagando dalla politica, elezioni o non elezioni anticipate?, al buco dell’ ozono, ambientalisti sì, ambientalisti no. Le parole corrono veloci, i sorrisi si sprecano, il tono è leggero. Non ci sono i sospiri che temevo. Gli occhi bassi. Luccicanti. I ricordi. No. I ricordi no. Il cielo ci scampi dai ricordi. Alla frutta mi capita così, per caso, di pensare alla scuola, io e Enzo quando si andava a scuola, alle pirlate che facevamo, a dire la verità le pirlate le facevo io, lui mi veniva dietro da quel buon gregario che era. Non aveva iniziativa, questo era il suo difetto. Comunque si era amici. Scuoto la testa e, quando me ne accorgo, mi do del cretino. Offro da bere. No, grazie. Davvero. Senza complimenti. Arriva il caffè. Lo beviamo seduti nell’ angolo salotto. Io in poltrona. Enzo e Laura sul divano. Noto solo in quel momento che Laura è particolarmente carina, tirata a lucido, vanità di donna! Lui è rilassato. Beviamo il caffè. In silenzio. Penso: “E adesso? Che facciamo? ” Badassi a come mi sento, mi stenderei una mezz’ ora. Magari con Laura. Hanno finito il caffè, appoggiano le tazzine sul tavolino basso, Laura si china a sistemare la sua, ha una bella scollatura, mia moglie. Do un’ occhiata rapida e sbieca a Enzo, se mai mostra un barlume d’ interesse per le tette di mia moglie. Non noto niente. Ha lo sguardo educatamente assente. Li sento parlare, io mi astengo dalla conversazione. Parlano della prossima estate.
“Ma sì, è sempre la solita storia. Con Marco (sono io, Marco) che ha le ferie in agosto e così si va via quando si muovono tutti. Proprio tutti.” sottolinea Laura. “Si spende di più, si sta peggio. Ma non si può fare diversamente.” Enzo annuisce.
Ma cosa vuoi mai che gliene importi? Dei tuoi, nostri problemi da vacanzieri di massa? E poi la conosco a memoria la litania del “perché non puoi prendere le ferie in luglio?” Perché non posso. Ecco perché. Perché l’ ufficio chiude in agosto. Ecco perché. Quello che vorrei sapere invece è perché, stando così le cose, non ce ne rimaniamo a casa nostra. Invece ci imbranchiamo con gli altri milioni come noi e finiamo a sbranarci per il posto in aereo, per la sdraio al mare, per la fila dell’ ombrellone, sempre troppo lontana dal mare. Potremmo stare a casa. In fin dei conti non abbiamo bambini piccoli cui fare cambiare aria, portandoli dall’ inquinamento cittadino al sole a rischio di una qualunque spiaggia. Enzo comunque non ha progetti. Eh già. Lui e Marta andavano via giusto una settimana, dieci giorni al massimo, ogni anno un posto diverso, per svagarsi, per conoscere luoghi differenti, gente differente, costumi differenti. Ma adesso, così, da solo… Laura lo guarda comprensiva.
Una crocierina? Gli suggerisce. Si conoscono tante persone a bordo, e poi c’ è sempre qualche attività stimolante pensata dagli intrattenitori. Questo della crociera è un tarlo, un’ idea fissa di Laura. Sono anni ormai che spacca con la crociera in Grecia, in Norvegia o in Egitto non importa: basta che crociera sia. Non mi ci vedo su una nave, barca, tinozza per giorni e giorni a farmi intrattenere con l’ obbligo di dovermi divertire.
“Sì, una crociera. Ci dovrei pensare. Non è una cattiva idea. Magari una di quelle che ti portano in giro per il Mediterraneo… Sì.”
Ecco, Laura è raggiante. Ha trovato uno che condivide la sua idea. Si crea di colpo, quasi in modo istintivo, un clima di congiura fra i due e io, naturalmente, ne sono escluso. Laura si alza, va alla piccola scrivania, apre il cassetto centrale, ne estrae una manata di depliants. “Ecco, sono nuovi, di quest’ anno. Ho fatto un salto in agenzia l’ altro giorno. Così, sai, avevo due minuti liberi. Tanto per vedere, sentire i prezzi, le proposte…”
Mi guarda, di sfuggita. Le tirerei il collo. Lo sa bene come la penso, ma non demorde. Si mette d’ impegno a illustrare le possibilità: nomi di luoghi, date, prezzi volano nell’ aria, ognuno, a suo modo, prende vita e dà vita a un sogno. Mi pare. Quasi quasi quei due mi fanno tenerezza. Lei, con la sua voglia di andare e fingersi per una settimana una donna di mondo, lui con il suo bisogno di vivere ancora, nonostante tutto. Magari di prendersi una vacanza dal dolore, di staccare dal sentirsi solo. Tutti e due cercano una via di scampo. Io no. Non ce ne sono vie di scampo. Se ce ne sono non mi interessano. La vita ordinaria mi si addice, mi calza a pennello tutto il suo grigiume. Mi sento una nuvola nera che porta pioggia. Gonfia di aria. I due si sono fatti vicini sul divano, sfogliando gli opuscoli, immersi nei loro viaggi. Potrei accendere la televisione, non se ne accorgerebbero neanche. Mi trattiene l’ impressione che così facendo, mi escluderei automaticamente da loro in modo totale. Non mi garba, e non so perché, l’ intimità che si è creata fra di loro. So che sono sciocchezze, anche perché non sono geloso, mai stato geloso. Fisicamente. Ma qui, davanti a me, si sta mettendo in scena qualcosa di irritante e diverso: un’ alleanza di gusti, una ricerca di solidarietà, una connivenza. Per niente gradevole. Mi stanno venendo i nervi. Adesso vado a zappare in giardino. Ma sì. Fruscio di carta patinata.
Laura dice: “Sarà meglio che sistemi un po’. Scusa.” Si alza. Raccoglie tazzine, piattini, zuccheriera, va in cucina. Sculetta un po’? No, è solo un’ impressione.
” Mah…” fa Enzo. Lo guardo, interrogativo.
“Vedi, Laura è davvero tanto carina e gentile a mostrarmi tutto questo…, ” indica gli opuscoli con quanto contengono, “ma, sai, l’ idea di andarci mi angoscia. Starei tutto il tempo a pensare a quanto a Marta sarebbe piaciuto questo o quello o se magari non le sarebbe piaciuto. Mi sentirei ancora più solo in mezzo a tutta la gente che ci va per divertirsi, giovani e non. Non so se mi spiego.”
“Con il tempo…” incomincio a dire e mi sento incastrato in quello che avevo temuto sin dall’ inizio, ricordi rimpianti lamentazioni.
” …. passerà?” conclude Enzo.
“Magari non passerà. Si attenuerà.” dico io.
“Magari. Penso che sarà così. Diventerà un ricordo. Adesso è il presente. E’ la vita di ogni giorno. E’ sempre dentro di me. Con me.” Ha gli occhi stretti a fessura.
Fa’ che non pianga. Tento di dimostrarmi amichevole. “Ti capisco.”, faccio.
“Non credo”, dice lui, gentile ma categorico e ribadisce: “Non credo proprio. Ma non importa. Non ho la pretesa che gli altri si rendano conto davvero di quello che provo. Del come lo provo. Sai, dice, come cambiando discorso, l’ altro giorno ho incominciato a mettere mano nei suoi cassetti, per sistemare le cose e alla fine non ho sistemato proprio niente perché non mi va di mettere via le sue cose, mi sembrerebbe come di sfrattarla da casa sua e tu lo sai a come ci teneva a casa sua, insomma l’ altro giorno in un cassetto ho trovato una busta e dentro la busta c’ erano un paio di mutandine e un reggiseno di quelli tutti di pizzo e mi sono ricordato di quando li aveva comprati e me li aveva mostrati e mi aveva detto strizzando l’ occhio: li metto da parte, sono per un’ occasione speciale. Non li ha mai indossati, Non c’ è stata nessuna occasione speciale ed è stato senz’ altro per colpa mia. Solo le è capitato questo, d’ essere seduta a tavola con me, di dire mi sento male e due minuti dopo, due minuti, capisci, era finita. E non c’ è stato verso di farla tornare indietro, dovunque sia andata. Capisci.”
Si è alzato dal divano e mi sta di fronte, in piedi, grigio, quasi vecchio, disperato.
Si sta chiedendo: “Perché?”, e mi accorgo, stupefatto, che anch’ io mi domando: “Perché?” lo sto letteralmente urlando dentro di me. Arrabbiato. Incazzato. Colpito. Perché? E non mi basta il son cose che capitano. Tutti i momenti. A migliaia di persone.
“Andiamo un po’ fuori. ” Laura s’ è messa una giacchetta sulle spalle e ci indica la porta d’ ingresso. E’ seria. Dalla cucina arriva il ronzio della lavastoviglie. Usciamo nel giardinetto. Illustro a Enzo i lavori che devo fare. Lui dice che verrà una meraviglia. Parliamo del tempo. Alle 4 del pomeriggio Enzo se ne va. Lo salutiamo dal cancello, ciao, telefona, torna presto e cose simili.
“Devo portare fuori il pattume.” Dice Laura.
“Faccio io.”
“No. Devo finire di preparare il sacco.”
Entra in casa. Quando ne esce ha il sacco azzurro profumo limone in mano. Glielo tolgo e vado al cassonetto in fondo alla fila di villette. Nella trasparenza azzurrina della plastica galleggiano pagine patinate di navi da crociera. Butto via tutto. Spazzatura e sogni. Laura è sparita all’ interno. Sento chiudersi una persiana al piano superiore. Forse vuole riposare. Così non posso finire di falciare. Potrei svasare i gerani. A ben guardare potrei non fare un cazzo di niente. Anzi. Potrei incominciare a godermelo ‘sto sputo di terra, invece che sentirmene schiavo. Vado in garage e ne riemergo con l’ amaca. La sistemo. Mi ci stendo sopra. Vedo il cielo. Nuvole come soffi d’ alito. A destra e a sinistra terra e erba fresca, nuova, appena nata, fra le primule rigorosamente rosa, è fiorito un piscialetto, ha un bellissimo colore giallo dorato.
Ragazzi, penso che lascerò che l’ erba cresca bella alta e grassa, che i piscialetto fioriscano fra le rose rosa, perché mi accorgo che alla fin fine non mi importa poi molto che tutto sia spazzolato simmetrico e in tinta. Tanto non voglio finire su Case e Giardini, ma solo cogliere gli attimi, tutti quanti, attimo per attimo. In ultimo sono tutti occasioni speciali.
E il cielo passava sul treno, instancabile.
Nel treno vivevamo vite serrate da alba a tramonto e giovinezze si strangolavano - fresche si riducevano a manciate di frammenti vetrosi e opachi -.
Vivevamo nel treno da infanzia a vecchiaia – se si era fortunati si arrivava a diventar vecchi o forse era quella la paura vera -
perché alcuni pensavano che era meglio andarsene prima, darci un taglio prima che tutto si sfacesse in manciate di cenere
le nostre vite sapevano di cenere, avevano il colore della cenere, così grigie, piatte, uniformi.
Ci mancava lo straordinario
- il colore dell’ aquilone sfuggito di mano, il filo penzolante nell’ aria, che volava sul vento e si perdeva lontano: irraggiungibile, perso… -
ci mancava lo scatto che permette la corsa
ci mancava la voglia dell’ andare per vie traverse dietro a quello che davvero eravamo
ci incontravamo, ci salutavamo, e il tempo scolpiva i giorni sulle nostre fronti
Il cielo ci passava sopra
e noi lì, nel treno….
Lo chiamavano “il treno”quel nostro lungo, lunghissimo rettangolo di cemento sporco, decrepito, ormai fatiscente con tanti piccoli alloggi, uno era il mio, tutti identici
come noi eravamo – uguali l’ uno all’ altro -,
come uguali erano i nostri passi su quel selciato smorto,
uguali i nostri giorni ,
un cruciverba ancora da fare, caselle da riempire con parole che avessero un senso
un enigma da risolvere
una definizione da trovare
E in tanta incertezza c’ era solo la sua finestra con le tende gialle e leggere e quel vaso di gerani rossi che lei teneva sul davanzale come a farci sperare. Che ci fosse dell’ altro.
Rosaria, occhi e capelli neri e luminosi, era venuta ad abitare al secondo piano, in un tre camere quasi nel centro del treno, con i genitori e il fratello Salvo. Anche loro, come tutti noi, venivano da un paesino del sud e speravano in una vita migliore, in un lavoro migliore, in cure migliori per la madre malata.
Rosaria ci era comparsa davanti, per la prima volta, una mattina presto, sulle scale, con un litro di latte in una mano e un grosso pezzo di pane nell’ altra. Con un bel sorriso sulla bocca, la frangetta che le accarezzava la fronte, il passo quasi danzante.
Noi, gli operai della fonderia, scendevamo per andare al lavoro. C’ era, ricordo, anche Max. E poi c’ erano Marco, Salvatore, Rocco… Max si fermò e si fece da parte per lasciarla passare. Si guardarono un attimo, ricordo. Lei sorrideva. Uscimmo nella mattina chiara.
Rosaria aveva diciassette anni, all’ epoca. Badava alla casa e alla madre. Il padre e il fratello lavoravano come meccanici. A soldi stavano meglio di tanti di noi. Potevano pagare il medico, non lasciavano i conti in sospeso alla bottega. Non gli tagliarono mai il gas.
Rosaria era alta e flessuosa. Sembrava – ed era, ne sono certo- morbida, come velluto.
C’ era poi il suo modo di andare, – l’ aria che le si muoveva intorno e che faceva pensare ai gelsomini -.
La sentii ridere la prima volta una sera, mentre smontavo dalla bicicletta sotto casa. Una delle sue finestre era proprio sopra la mia testa, due piani sopra. Era una primavera tiepida, i vetri erano aperti, e la risata di Rosaria scivolò lungo il muro, ballò su e giù dai davanzali, un’ armonia limpida di note. Alta, ricca, freschissima.
Mi accorsi che anche Max era arrivato e guardava all’ insù , verso la finestra aperta, gli occhi socchiusi. Mi fece un cenno, ricordo. Lo salutai.
Sognai Rosaria, quella notte. Per la prima volta.
Verso maggio, mise delle tendine gialle, leggere e iridescenti, parevano ali di farfalla, alla finestra della sua camera. E sul davanzale posò un vaso di gerani rossi.
Noi, i giovani del treno, guardavamo spesso a quelle tendine e a quei gerani, la sera, dal bar dove ci ritrovavamo dopo cena.
Tanto per far qualcosa.
Tanto per uscire.
Tanto per non stare a crollare di stanchezza davanti alla tv.
Stavamo a crollare di stanchezza al bar.
E l’ occhio scappava alla finestra di Rosaria. Ma nessuno di noi diceva una parola di lei. Ci provò Salvatore una volta. Non gli demmo corda. Il discorso cadde nel niente.
Rosaria dal passo danzante era una e dieci e cento. Una per ciascuno di noi, a secondo di quello che ciascuno di noi vedeva in lei. Credo.
Per me era l’ immagine della vita. Il cuore della vita. Lo scopo della vita.
Che cosa fosse per gli altri non sapevo.
Che cosa fosse per Max lo capii solo tempo dopo. Ma quella è stata una storia diversa. In un altro mondo.
La incontravo sempre di mattina presto, quando rientrava dalle prime commissioni. Sempre mi chiedevo come facesse a quell’ ora ad essere così fresca e in ordine, ad apparire radiosa, felice.
Felice. Pareva felice.
Spesso la rivedevo la sera quando rientravo. Lei stava sotto casa, abito di cotone, ad aspettare il fratello e il padre, a prendere un po’ d’ aria. Non sembrava che avesse voglia o fretta di fare amicizia con le ragazze o con noi.
Quando il padre e il fratello arrivavano, si girava veloce e saliva le scale a passo veloce. Una sera inciampò e cadde sui gradini. Si alzò subito. Zoppicò e si appoggiò alla ringhiera di ferro della scala.
Le chiesi: “Fatta male?”
” No, grazie.” Rispose. Rimase ferma, appoggiandosi su un solo piede.
” Bisogno d’ aiuto?” chiesi
” No. Credo di no. Passa subito.”
“Rosaria…” suo padre era subito dietro di me. Mi feci da parte. La vidi sparire dentro casa al braccio del padre.
Non è che fossimo curiosi di sapere di lei.
Che cosa facesse esattamente tutto il giorno, per esempio.
Avremmo forse voluto sapere che sogni aveva, per esempio.
Che ne avesse lo si capiva. Non poteva essere diversamente.
Ne avevo viste tante di persone che avevano perso i sogni per via ed avevano tutte la stessa faccia, lo stesso sguardo, opaco.
Lei invece era piena di sogni. Quali che fossero, le davano colore e profumo.
Non è che fossimo curiosi di sapere di lei.
Ci sarebbe solo piaciuto conoscere qualcosa di lei.
Forse solo per sognarla meglio. Credo che tutti la sognassimo.
Presi ad andare a messa la domenica, la messa delle otto, quella delle vecchie del treno che andavano in chiesa presto, tanto in casa tutti dormivano e loro, sveglie dalle sei, non potevano far niente, per non svegliare figli e nipoti che, quel giorno, volevano dormire fino a tardi.
Si ritrovavano in chiesa, assistevano alla messa e poi, finita la funzione, si fermavano sul sagrato a scambiar due chiacchiere. Così si facevano le nove.
Presi ad andare alla messa delle otto, giusto per vedere Rosaria, unica giovane in quel mare di volti avvizziti, grigi e stanchi. Mi mettevo in fondo. Vedevo la sua schiena dritta, i suoi capelli lisci.
Mi ritrovai a pregare. Dio, ti prego, …
Aspettavo che uscisse. Facevo in modo d’ intercettarla sulla porta. Ci salutavamo. A lunghe falcate attraversava il sagrato, salutava le vecchie e spariva all’ interno del treno. Poco dopo, si aprivano gli scuri della sua finestra, e lei ritirava il geranio per liberare il davanzale e poter mettere all’ aria le lenzuola. Braccia piene e luminose.
Guardavo in su, cercavo i suoi occhi. Mi vedeva. Faceva un saluto veloce con la mano.
Quella domenica, trovai Max davanti al treno. Aspettava, disse, un amico. Con l’ auto. Per una gita a Cesenatico. Anche lui alzò gli occhi quando Rosaria aprì la finestra. Lei sorrise, a tutti e due. Ma guardò Max.
Non so come accadde. So che fra tutti noi del treno, Rosaria scelse Max. Alto, dinoccolato, occhi azzurri, sigaretta fra le labbra, di poche parole. Un musone, quasi. Che non amava ridere, scherzare, giocare a biliardo. Con lo sguardo un po’ perso, dove non si capiva. Max che lavorava in fonderia di giorno e di notte riempiva di parole certi quaderni neri con l’ orlo rosso. Li teneva impilati su una mensola della camera da letto. Non ne parlava mai. Noi lo sapevamo perché sua madre lo aveva detto alla fornaia. La voce s’ era sparsa, fra una pagnotta e un filone.
Max scriveva. Di che cosa? E che cosa diceva poi? Me l’ ero chiesto spesso. Quello che mi colpiva di più era il fatto che riuscisse a scrivere di qualunque cosa scrivesse, vivendo la vita che viveva.
Così sacrificata. Una vita stretta.
Così qualunque. Niente di straordinario a movimentarla.
Così uguale, un giorno come l’ altro. Sempre la stessa.
Che cosa poteva mai mettere sulla carta?
Forse solo il desiderio di essere altrove. Di essere un altro.
Rosaria s’ innamorò di lui e lui di lei.
Si sposarono. Ci fu festa grande quel giorno.
Rimasero a viverci, nel treno. Ci fecero due figli. Non so se ci stanno ancora.
Non lo so, perché, ad un certo punto, io me ne andai. Tornai al paese da dove ero partito, un ragazzo appena, in cerca di fortuna. Tornai a ritrovare il profumo degli agrumeti e il sapore del mare. Almeno quelli.
Da molto tempo non sogno più Rosaria. Ma ancora mi torna alla mente e la rivedo lì, sulla soglia, sorridente. Un’ apparizione che non vuole diventare ricordo.
So che Max continuò a scrivere quei suoi quaderni, la notte. E adesso so di che cosa scriveva, perché ne hanno fatto un libro, alla fine, delle sue carte.
Il libro incomincia così: Il cielo passava sul treno, instancabile…
Jerzy Tadeusz Mróz, From the series “Places” 05
Lo accompagnavano sulla spiaggia tutte le mattine tre bambini fra gli otto e gli undici anni. Due maschi ed una femmina, dai volti abbronzati e gli occhi scuri. La femmina lo teneva per mano, i due maschietti andavano avanti, precedendoli fino ad una specie di capanno che poi capanno non era, ma solo una tenda scolorita e sdrucita sorretta da due pali e fissata nella parte posteriore ad una cintura di canne bionde. I bambini vi arrivavano per primi e davano un’ occhiata al posto, come a guardare che tutto fosse in ordine, poi uno sgusciava fra le pieghe dello straccio che la brezza animava gonfiandone ora un lembo ora un altro, ne riemergeva portando una sedia pieghevole, apriva la sedia proprio davanti al riparo, aspettava che lui arrivasse tenuto per mano dalla bambina. Lo facevano sedere. Un’ ultima occhiata in giro e se ne andavano.
Il vecchio restava seduto al riparo della tenda, in vista delle onde e delle palme, per ore. Non faceva niente. Un volto segnato dagli anni, dalla fatica, dal sale dell’ oceano. Mani grandi, venate di blu, deformate dall’ età, artigli parevano, posate sulle cosce magre. Occhi scurissimi brillavano fra le rughe profonde incise nel volto. Non faceva niente. C’ erano vecchi che intrecciavano giunchi, riparavano reti, parlavano fra loro, in quell’ angolo di spiaggia subito dietro il bastione del vecchio fortino spagnolo, prima dei grandi blocchi che delimitavano il porto. Il vecchio stava solo, sulla sua sedia, il capo che si reclinava sempre più man mano che le ore trascorrevano e lui, dondolandolo , ma solo un poco, cantilenava quello che pareva un canto antico.
Suoni e parole sussurrate, smozzicate, nella brezza dell’ oceano, fra i fremiti delle foglie di palma, davanti alle onde che luccicavano al sole come fatte di scaglie d’ oro e d’ argento – così eran fatte le corazze degli eroi, quelli del passato – e ai suoi piedi la sabbia, nera, lavica, che contrastava con il colore del cielo e dell’ acqua e pareva dal contrasto trarre forza.
Io sono qui. La terra degli uomini di mare.
E davanti, l’ oceano mutevole, cangiante nei colori, che é così ed ecco non lo é più, terra di mare, di leggende, di sogni e d’ amori, di tesori e di morte.
Anch’ io sono qui. Il mare impregna la terra. La bacia e si ritrae. Chiama. Cantilenava il vecchio la sua canzone. A nessuno e a tutti. A quelli che ascoltavano e a quelli che passavano e ammiccavano. Ai vivi e ai morti. A se stesso. Al presente e al passato. Forse al futuro.
Avvicinarmi a lui e accoccolarmi lì vicino non mi costò nessun sforzo. Mi venne spontaneo. Poiché c’ era un mondo intero in quei suoni e in quelle parole. E, si sa, non ci si può permettere il lusso di lasciar perdere un mondo nuovo da conoscere. C’ è sempre da imparare.
“Domani, domani vedrai, era ieri, un giorno fa….dolce nell’ acqua il pesce guizza e la rete si tende e l’ onda porta lontano. Viaggi fra creste di spuma, la vela lacerata, il fulmine squarcia livido il cielo, acqua salata, la barca fra le onde, conchiglie sulla riva ad asciugarsi al sole…partenze, ritorni….figli del mare….aspetta ….il mare….che non dimentica un volto, ricorda tutti i sorrisi e le ombre e le speranze accoglie…Credi. Nel mare. Porta lontano. Il mare. Onda su onda. Onde. “
Mi fissa. Occhi lucidi di vita. Dondola il capo, piano. Le mani artigliano le cosce magre. La cantilena diviene un discorso ritmato sul batter dell’ onda sulla riva:
“Di tutto raccoglie il mare. Acqua. Credi che sia solo acqua. Salata. Credi che sia il mondo dei pesci, dei grandi e dei piccoli. Ci vivi sul mare. Ci passi la vita. E lui ti culla e ti strapazza, ti sussurra e ti urla all’ orecchio. Gli chiedi: Chi sei? Dunque, chi sei? Attento, chiediglielo con gentilezza. Se vuoi una risposta. Che poi magari ti risponde solo dopo anni, ma non importa. Tu chiediglielo con gentilezza. Prima o poi risponde. Ti prende a schiaffi, innalza muri d’ acqua tenebrosi, ti sprofonda giù giù nel suo ventre e ti solleva in alto incontro al sole. Così è fatto il mare. Mai fermo, anche quando la sua voce si fa sottile sottile tanto che ti ci addormenti il cuore in quella voce, neanche allora è fermo. Non può star fermo. Troppe cose ha dentro di sé.
Ti fa trovare nella rete un coccio che non si sa da dove venga, da che tempo venga, una conchiglia enorme come non se ne è mai viste, poi un giorno capisci, perché è lui che risponde, che hai passato la vita a navigare dentro uno scrigno fatto di ricordi…ricordi tenuti stretti nella sabbia dei fondali, rivestiti dallo smalto dei coralli, ossa di amici, lance di nemici, ancore che non sono più risalite in alto….spazio e tempo si danno la mano nelle onde, ballano sui giorni che vanno a perdersi fra albe e tramonti, sole che sorge e luna che sale e sole e luna specchiano i loro visi nel mare e il mare conserva il calore del sole, la luce della luna e se ne impreziosisce…
Caddero dall’ alto della rupe e il mare li accolse e nessuno li divise. Due amori che correvano inseguiti, perché una figlia di principe non poteva amare un cavaliere… Non li presero. Si fermarono lui e lei sull’ orlo della rupe e si baciarono con gli occhi, bada, solo con gli occhi e non importa come si chiamassero. Si baciarono con gli occhi e si lanciarono giù dalla rupe nel mare. Il mare conserva il loro amore, raccontano le conchiglie la loro storia… t’ amo… anch’ io t’ amo e nessuno li può dimenticare. E i pesci nel profondo salgono verso l’ alto, la luce a fior d’ acqua smuovono, onda su onda.
La voce del mare narra storie…. e tu sei lì in mezzo a quell’ acqua chiara e senti e ascolti e poi… non dimentichi più e il mare ti lascia i suoi ricordi e tu torni a riva e racconti a quanti ascoltano e poi racconti solo a te, se nessuno t’ ascolta più.
I tesori del mare. Tanti. Ma questo è il più grande. Il mare conserva le orme lasciate da quelli che son passati su rotte lontane e ogni tanto qualcosa restituisce,…si è soli sul mare, non fosse per la sua voce e le sue storie. Conservare, a volte restituire. Il vento cancella le orme lasciate su strade polverose…il mare conserva i suoi tesori e sono memorie antiche…A volte le restituisce. Perché si sappia che lui non dimentica, mai. Niente. Nessuno. Lui c’ è fin dall’ inizio, c’ era solo lui. Ha visto e sentito tutto… Il mare ha occhi grandi sempre spalancati che tutto vedono e le ombre accolgono.
Anche quando gli uomini si sono ammazzati e l’ acqua era rossa attorno alla barcaccia e loro si scannavano come indemoniati finché ne rimase uno, il mozzo, che fu ripescato da quelli della Tina e mai disse perché era accaduto quello che era accaduto. Il mare li sentì parlare, gridare, sentì l’ arpione che si conficcò nel cuore del primo, il colpo che prese alla testa il secondo, lo scatto della lama che s’ affondò nel petto del terzo e poi lavò le lacrime del quarto e alzò un ‘ onda gigantesca che strappò sartie, divelse l’ albero, spazzò il ponte, ghermì l’ ultimo degli uomini e tutti li portò a dormire fra i rami fioriti delle alghe. Tranne il mozzo: lui lo trasportò a una tavola e lo sospinse in là… lontano.
Sa di guerre, d’ amore, di odio e di lacrime. Di violenza e forza e coraggio: l’ odore del mare. Inebria. Incanta. Dal passato fluisce nell’ oggi e poi… ancora… avanti verso il domani. Nulla va perduto.
Un giovane partì per tentar fortuna ed aveva solo la sua barca che era stata di suo padre e speranze gli gonfiavano il petto. Cercava fortuna. Lontano dall’ isola dalla sabbia nera dove era nato. Cavalcò le onde fino al continente dove la gente parla in modo strano e sempre corre per strade fatte di polvere.
Il mare ve lo portò con venti favorevoli, fu buono e gentile con lui. Arrivò. Lavorò. Guadagnò. Divenne ricco. E potente. Dimenticò il mare. Ma il mare non si scordò di lui. Lo chiamava ogni notte da sotto i pontili allungati sui moli di cui il giovane era divenuto padrone…Ritorna, diceva, ritorna. Perché il mare ha memoria eterna. Come se fosse un figlio perduto, lo chiamava. Memoria eterna ha il mare che tutto riceve e tutto conserva. Io non volevo tornare. Ero ricco. Potente. Ma mia madre stava morendo, mi mandarono a dire. Tornai. Su un battello bianco e rosso che era una meraviglia. Perché ero ricco. Il mare sorrise frusciando contro lo scafo e colorando d’ oro i fianchi della barca. Io fumavo e pensavo a quando ero partito da casa, così giovane e solo. Il mare mi accompagnò all’ isola e mi lasciò sulla riva, le onde si accartocciarono intorno ai miei piedi come per trattenermi. Mia madre intanto era morta. Girai di nuovo le spalle all’ isola, la terra aspettava lontano, poi lei, che avevo amato da ragazzo, mi fu davanti e fu come una magia di luci e di ombre e di calore e di freddo e il sangue corse rapido per le vene e io pensai che l’ avrei portata via con me, quando ci fu il boato e il vulcano spruzzò nel cielo vampate di fuoco. Corremmo al battello. Molti ne portai con me al largo. Il mare impazziva intorno all’ isola e gridava. Poi tutto finì, tornammo a riva e fra la rovina la voce del mare ricominciò a cantare. Della vita dell’ amore della morte…
Non tornai più sul continente. Perché il mare non dimentica. Mi aveva chiamato indietro perché io mi ero scordato dell’ amore che mi ero lasciato alle spalle, di me stesso. Glielo avevo narrato durante le notti trascorse a pescare, di lei, di quanto eravamo giovani e poveri… lui se l’ era tenuto ben fisso in mente, io no. Rimasi. Mare della mia vita. “
A me, accoccolato sui talloni sotto il sole, con negli occhi le frange delle foglie di palma, si apre dinanzi una breccia aperta sull’ infinito attraverso la quale passato presente e futuro confluiscono in linee convergenti come radici di alberi secolari che nella terra sprofondano e s’ allungano e dal tronco si allontanano, riemergono a fior di terra e al tronco linfa convogliano attimo dopo attimo. Uno spazio aperto nel mare immenso che preserva, accoglie e inanella di bagliori le spoglie dei sogni, i ricordi stessi dei giorni e non esiste ieri, ma solo quest’ oggi che con l’ ieri è tutt’ uno e diviene domani.
Mare che risuona di parole e sospiri, le mie parole, i miei sospiri, occhi aperti a cercare quel perché che non trovo da nessuna parte, che, se appena mi pare di scorgerlo, mi sfugge e la ricerca riprende
Forse fra le onde non troverò risposta,
ma pace
e il ricordo di lei fra i ricordi di tanti respireranno echi di vita
e lei ancora sarà con me,
- i nostri attimi durati una vita,
perduti nel fango d’ una luce ingannevole, d’ un suono stridulo, fragore e schianto, rottami contorti -
lei ancora sorriderà e tenderà la mano: sono qui.
Mi fissa il vecchio, viso grinzoso, e dondola il capo sì sì sì, è così.
Mi alzo, annuisco e mi allontano a passi lenti sulla sabbia nera di quest’ isola nata dal fondo dell’ oceano, che ti riempie di voce potente, frangente dopo frangente e se cammini proprio sulla battigia dove le onde si sfanno, non importa se piangi, tanto gli spruzzi ti lavano il viso e nessuno se ne accorge. Solo il mare lo sa.
Presi l’ abitudine d’ andare sulla spiaggia di sabbia nera e, giorno dopo giorno, aspettavo che lui arrivasse, ascoltavo i brandelli di frasi che gli uscivano dalle labbra, insieme guardavamo la linea lontana dell’ orizzonte dove cielo ed acqua s’ incontrano, sfumando l’ uno nell’ altra.
Un giorno il vecchio non venne, i ragazzini non si videro. In paese si parlava solo del fatto che nella notte era morto, quasi centenario, colui che per tutti era il padrone dell’ isola.
Il padrone dell’ isola. Di ogni locale, di ogni casa, forse di ogni granello di sabbia nera. Lui.
Allora sono tornato pian piano alla spiaggia, ho camminato sulla battigia, mi sono chinato a raccogliere un sassetto levigato, verde, l’ ho stretto nel pugno, mi ha ferito il palmo, l’ ho stretto con più forza, poi mi sono fermato e l’ ho guardato nel profondo, quel mare d’ acque salate che sanno degli uomini quando ancor di vita non ce n’ era al mondo aperto in spazi infiniti, l’ ho fissato e con gentilezza, badate, con gentilezza, gli ho chiesto: “ Perché lei è morta, lei, non io? “, e ho lasciato cadere nell’ onda il sassetto, con dolcezza.
In dono. Perché non dimenticasse la mia domanda.
Dove poi fosse finita la sua, di giovinezza, non sapeva. Non che ci avesse pensato più di tanto. Fino ad allora. E anche in quel momento, mentre si poneva la domanda, capiva che non era davvero opportuno indagare. Era terreno minato. Un probabile invito alla depressione, acquattata dietro l’ uscio di cucina. Eppure non riusciva a togliersi il pensiero dalla mente.
E dove accidenti era finita? In qualche buco oscuro e ostile, probabilmente.
Se l’ era squagliata così in fretta che, a pensarci bene, quasi quasi le pareva di non averla avuta, una giovinezza. Impossibile. Ce l’ hanno tutti. Persino le cose, prima nuove, poi, con il passare del tempo, vecchie e usurate.
E dunque?
Fiaccamente incominciò a fare le cose di sempre, come, ad esempio, infilare in quel cavolo di presa l’ attacco dell’ aspiratore, – woom, woom, fece l’ arnese. Il tubo ringhiò e si mosse animato di vita propria. –
Faceva il suo dovere. Aspirava. Lo manovrò con un profondo senso di disgusto. E lo stesso fece con la scopa elettrica, con la lucidatrice e con il pannetto da spolvero garantito “non lascio pelucchi”. Fu solo quando si spostò a pulire il bagno che franò.
Quel qualcosa di tondo e viscido che le stava attorcigliato nello stomaco, si srotolò e incominciò a ballare come un disperato, togliendo il tappo a tutti i suoi tentativi di fare di quella mattina, la solita mattina.
Perché lei doveva assolutamente fermarsi e rispondersi. Che ci volesse un minuto, un’ ora o tutto il giorno. Magari il tempo che le restava.
E allora, dove accidenti era finita la sua giovinezza?
Nello scarico del bagno, con tutta probabilità.
Senz’ altro dove vanno le giovinezze di tutti quanti. E qui stava il nocciolo della questione, lo sentiva. Perché, ne era convinta, c’ erano giovinezze e giovinezze. C’ erano quelle che finivano in paradiso e quelle che andavano all’ inferno.
E la sua, da quel pozzo là in fondo, infinito e nero e rancido mandava effluvi di marcio. Incavolata di brutto, ignorata com’ era stata. Proprio non considerata.
Perché anche se, cronologicamente, lei un’ età da poter definire giovinezza, l’ aveva avuta, però non le aveva mai dato corda, non l’ aveva mai vissuta.
Chiaro, non era stata colpa vera di nessuno.
Eppure lei era stata, in un qualche subdolo modo, defraudata. Privata.
Era stata giovane e da giovane aveva mandato a mente il decalogo dei doveri dei giovani, così come era suo dovere fare.
Vedi lo studiare.
- Aveva studiato dieci ore al giorno tutti i santi giorni.
Vedi il non dar pensieri.
- Aveva tolto di mezzo tutto quello che poteva finir per dar pensieri. Il gusto della corsa, la voglia dell’ avventura, il fiato grosso, l’ attesa dell’ amore, l’ amore, l’ amore, l’ amore… erano stati messi da parte, chiusi in un cassetto
- solo una sbirciatina, rapida e colpevole, ogni tanto, ma non troppo spesso. -
- Aveva pensato di scappare. Una volta. Non ne aveva fatto niente. Chiaro.
- Aveva incominciato a lavorare. Aveva lavorato tutta la vita – come tanti, certo – e imparato altri doveri. Si era immedesimata.
Di dovere in dovere gli anni erano corsi via – attimi, ore, giorni, un castello di tempo fatto di sabbia -.
Si era a volte sentita anche brava, utile, soddisfatta di sé.
Ed ora si guarda allo specchio e vede una persona che non conosce, una donna quasi vecchia, occhio ostile, bocca amara.
” Non sono io,” si dice. “Io non ero così. E, in ogni caso, non dovevo diventare così.
” Io avevo dei sogni “
che mi facevano sentire libera, con un piede nel mondo che avrei voluto per me, ma il fatto è che in quel mondo non ci ho mai tirato dentro l’ altro piede, sono sempre rimasta di là, dall’ altra parte dello specchio, i sogni spinti, sempre più in fondo dentro a un cassetto di legno tarlato.
” E la mia giovinezza se ne è andata e adesso rimango così, come in un deserto di carte false, a guardare indietro e a cercare quello che mi sono persa. Mi accorgo di aver vissuto la vita che gli altri si aspettavano che vivessi. Non quella che volevo io. Bella pirla. “
Si scrolla. Si muove davanti allo specchio, si sorride, si accarezza dentro, nell’ anima,
- bella pirla sei stata, bella pirla –
e sa che non c’ è rimedio, quel che è andato è andato.
” Ma guarda, ormai è primavera”, si dice. ” Goditela”, si comanda. Perché mettere limiti ai domani che restano?
Si pettina, si veste con cura. Indugia davanti allo specchio. D’ istinto si produce in una bella solenne chiara pernacchia condita da un uno “Tzé!” energico.
Esce di casa senza aver pulito il bagno. E’, lo sa, un buon inizio.
“I’m dreaming of a white Christmas
Just like the ones I used to know.
Where the treetops glisten,
And children listen
To hear sleigh bells in the snow…”
Sto guidando verso l’ ufficio, questa mattina d’ inverno, come faccio tutte le mattine, qualunque sia la stagione, in mezzo al fiume di altre auto che dalla periferia si riversano in centro, ed ecco ancora l’ albanese che chiede l’ elemosina al semaforo, infagottato in una giacca blu, nell’ aria gelida tagliente di questo ormai natale pieno di buone intenzioni, e sono solo le sette e mezza e lo smog si raggela rimanendo come sospeso fra i tubi di scappamento e il mio respiro è pesante quasi un globo di di vapore consolidato, non ho acceso il riscaldamento, solo ora me ne accorgo
Cerco in tasca, allungo all’ albanese un biglietto da dieci, no, uno da venti, non perché è natale, solo perché c’ è tutto questo freddo intorno a lui e intorno a me
Il semaforo scatta, parto
In ufficio ci sono alberelli sulle scrivanie, sintetici e rachitici, festoni di carta argentata appesi qua e là e la ragazza del centralino ha una piccola stella di natale appuntata sul bavero della giacca di lana
Sulla mia scrivania ci sono i giornali, gli appunti, i documenti, le relazioni e c’ è la foto di Linda dentro il cassetto
apro il cassetto, scivola piano, e lei è lì, sorride luminosa
Neppure io so con chiarezza perché tenga lì, rinchiusa, la sua fotografia nella bella cornice di radica bionda che abbiamo comprato insieme
forse è solo perché non me la sento di spartire, di Linda, niente con nessuno
non voglio spartire neppure la sua immagine. Che nessuno la guardi. Solo io, ogni mattina, quando entro in ufficio, apro il cassetto e le dico ciao
solo io, che per un attimo, solo un attimo, mi illudo che da un momento all’ altro mi possa chiamare all’ interfono, mettere la testa dentro l’ ufficio, dopo un leggero discreto bussare e chiedermi, caffè?
La mia segretaria perfetta.
Mi avevano dato la promozione e Linda con la promozione. Nessuno, neanch’ io, avrebbe potuto immaginare quanto poco importante la promozione sarebbe diventata e quanto importante sarebbe divenuta Linda. A quel tempo. Prima che le proporzioni si invertissero, prima che il valore della mia scalata ai piani alti perdesse di senso.
Caffè? Non ho sentito bussare. Forse non ha bussato, questa giovane donna seria e occhialuta, cortese, ma non gentile, che tutte le mattine, adesso, mi accoglie al posto di Linda. Anche lei porta un piccolo fiore, una stella di natale nana apppuntata sul petto. Ha un gran petto, questa nuova segretaria, pare che lo consideri un’ arma non so bene se di difesa o d’ offesa.
Caffè dunque. Domani è la vigilia. Dopodomani sarà Natale e poi ancora un giorno di festa. Conto mentalmente, vigilia natale santo stefano
senza albero presepio decorazioni senza voglie stimoli, il mio è un natale da encefalogramma piatto.
Mi lascio andare sull’ onda del lavoro, telefonata dopo telefonata, riunione dopo riunione.
Auguri
Buone feste
Dove vai la vigilia?
Noi facciamo una festicciuola, poca gente, per stare allegri, vieni
Fai un salto da me
C’ è anche chi si allunga e tasta il terreno per l’ ultimo dell’ anno, che ne dici di fare capodanno in montagna?
§§§
Le dico:
Vieni con me, Linda
Dove?
Da qualche parte, noi due. Soli
E’ Natale e a Natale si dovrebbe stare in famiglia
Tu sei la mia famiglia
Io? Nessun altro?
Nessun altro.
Non è vero. Hai una madre. Un fratello. Dei nipoti.
Chino la testa. E’ vero. Ho una madre, un fratello dei nipoti, una cognata, devo avere anche degli zii. Sono in contatto con tutti. Mi invitano sempre per anniversari e feste. A volte ci vado. E porto il mio contributo di regali e di sorridente presenza. Incontri che mi pesano. Mi riportano a giorni passati.
Rivedo un bambiino grassoccio, impacciato vestito per una festa, forse un natale, seduto composto sul bordo di una sedia dura, non sa che cosa farsene delle mani, sono sudate, le dita si intrecciano, si lasciano, tirano l’ orlo dei calzettoni
Sta’ composto
Non correre
Non dondolarti sulla sedia
Non tenere la mano sulla bocca
divieti obblighi troppi non. Mai superati.
Le dico:
Tu ed io. Soli.
Tu io mia madre mio padre e i miei fratelli. Io faccio Natale con i miei. Ti va di stare con noi?
Mi va? Non so. Ma il giorno di natale mi scrollo la neve dal cappotto davanti a una porta che vedo per la prima volta, con i miei bravi fiori, panettone e spumante. Doni votivi.
Suono il campanello.
Non so se sia a causa di Linda, Linda pare illuminare tutto e tutti, non so se sia per lei, ma passo un bel Natale. Linda ha una madre piccola grassoccia e semplice, un padre che ripete spesso le stesse cose, due fratelli fissati con il football e la musica metal. La televisione resta accesa durante tutto il pranzo, nessuno la guarda, crea solo un sottofondo di parole e di musica che sottolinea l’ atmosfera tranquillamente famigliare. Mi hanno dato la mano tutti quanti, quando Linda mi ha presentato. Sono gentili. Forse un poco perplessi. Un filo curiosi. Sono un amico di Linda senza una famiglia sua con cui passare il giorno di Natale. Dopo pranzo usciamo, io e Linda. Ho ringraziato, stretto di nuovo mani, ho aiutato Linda a infilare il cappotto. Siamo fuori e non parliamo. Non nevica più. Non piove. Fa solo freddo. Un freddo bianco e azzurro.
Linda non chiede nulla, che cosa pensi dei miei? Mi prende la mano.
Camminiamo. Il parco è spoglio e deserto. La terra è dura. Risuona ai nostri passi. Abbraccio Linda. L’ amo disperatamente.
E lei chiede, come per caso:
Due o tre?
Cosa?
Di figli. Uno è poco. Il problema è: due o tre?
Due.
Sei sicuro? Tre mi pare meglio
Perché?
Non lo so. Lo sento.
Perché no? Avremo tre figli. Non c’ è problema. Maschi? Femmine?
Non importa. Vorresti che il primo fosse un maschio?
Un maschio? Sì, certo. O una femmina. Che siano pure tre maschi. O tre femmine. O un maschio e due femmine o due maschi e una femmina.
Non fa differenza. Quello che fa la differenza è che saranno i figli di Linda, quelli che Linda farà con me.
§§§
Lascio l’ ufficio verso le undici. C’ è vento fuori. Gelato. A bavero rialzato faccio un giro sotto i portici. I negozi splendono di luci e di colori. Guardo le vetrine. Gioco a immaginare quello che a Linda piacerebbe, quello che sceglierebbe.
A Linda piacerebbe l’ agenda con i fogli di carta riciclata, piacerebbe la gonna lunga scozzese, piacerebbe quella sciarpa blu notte, con solo un filo d’ argento che corre nella trama, piacerebbe quella palla di vetro con sopra dipinto un usignolo da appendere alla finestra, piacerebbe … a me piacerebbe che fosse qui con me.
§§§
Dice:
Compriamo quel fazzoletto grande, colorato per la zia
E quel grande paralume di carta increspata per la cugina
E guarda, come è bella quella scatola con i nastri, a mamma piacerebbe
E tu? Che cosa vorresti tu?
Indica di colpo la palla di vetro che, se la capovolgi, scende la neve. Dentro un minuscolo paesaggio di monti e di abeti.
Il mercatino è in fermento, la gente s’ affolla intorno alle bancarelle dove piccoli oggetti comuni sembrano tesori usciti da scrigni segreti
§§§
Arrivo alla piazzetta dove vendono gli abeti.
Linda non ama gli alberi sintetici, adora l’ odore dei pini, l’ agrifoglio, il rumore del ghiaccio che scricchiola sotto la suola, adora il freddo, l’ inverno che si fa estate, l’ estate che reclina nell’ inverno
In questo periodo dell’ anno, cantarella Jingle bells e White Christmas, rivede vecchi film, i classici sul natale, con James Stewart,Humphrey Bogart, Bing Crosby, acciambellata nella poltrona a fiori del soggiorno. Perché Linda è incantata da tutte le storie che trovano il lieto fine sul filo dello sperare sempre, del credere credere e credere ancora che con un po’ di buona volontà, molto coraggio e un pizzico di polvere fatata, ogni cosa si aggiusterà.
Storie che sono sogni.
E Linda adora sognare, anche se non parla mai, a nessuno, dei suoi sogni
Le trasmigrano negli occhi e io sento quello che sogna da come mi guarda e da come non mi guarda
Li costruisce con pazienza, i suoi sogni, e poi li fa correre liberi a briglia sciolta per l’ aria, li riacchiappa, li modifica, li aggiusta e poi di nuovo via, a farli andare come cavallini appena nati, ancora malfermi sulle gambe, ma già pronti allo scatto dei puledri che diventeranno.
La sua, ora lo so, era una gara da fare con il tempo che ci restava, immaginare quel che sarebbe stato, immaginarlo vividamente, renderlo quasi reale palpabile, era la sua mossa per anticipare il futuro
e io amavo Linda e l’ amo, questo natale più di quello scorso, e l’ amerò il prossimo ancora e ancora quello successivo
Natale dopo natale io amerò Linda.
per questo succede che a natale mi prende un groppo alla gola.
Non di commozione. Non di spirito festivo. Di rabbia. Di ribellione contro
il dovermi sentire buono a tutti i costi , costi quel che costi
il dover pensare a regali, regalini e pensierini per parenti amici conoscenti e colleghi,
il dover comprare panettoni, spumanti e salmone da portare come contributo ai vari incontri prenatalizi in ufficio
il dover stare tre giorni a sentire canti di natale su ogni canale tv e ogni stazione radio
il dover sostenere la depressione di mia madre, gli incontri di famiglia, le bicchierate, le risate, le domande
le domande
il dover rispondere alle domande
il dover mentire e dire che tutto va bene
il dover fingere d’ esser contento
il dover rinunciare al silenzio alla solitudine che stemperano la mia angoscia in filamenti preziosi
il dover dare a vedere di apprezzare i consigli, gli incoraggiamenti, le pacche amichevoli, i sorrisi di comprensione
Io non voglio la complicità natalizia. Io sono uno che ha perso e ne è consapevole. Sono uno che sta filando il suo bozzolo traslucido in cui avvolgersi e stare al riparo dalla luce e prendere lunghi respiri riparatori così da uscire fuori un giorno, chissà, crisalide rinata
Ma non questo natale, no, non sono pronto e non so se mai lo sarò di nuovo in un qualsiasi altro natale
perché solo un natale fa avevo lei e lei si chiamava Linda ed era mia ed io ero suo e insieme eravamo una cosa sola e il natale era una magia di luci colori e canti. Come era giusto.
La neve sfarfallava intorno al suo viso incorniciato dalla sciarpa nera, si posava sulle sue ciglie scure, sulle sue labbra fredde, sulle sue spalle nel cappotto, sui suoi piccoli piedi,
neve che cadeva a falde larghe come danzando
e il cielo era plumbeo e greve, quasi minaccioso
ma c’ erano così tanti suoni a distrarmi e tutto un futuro a intrigarmi, il mio futuro con Linda, il nostro futuro
che non vidi il pericolo, assordato dalle campane che annunziavano la buona novella. Il bambino nacque nella mangiatoia e Linda fu sbattuta sulla strada bianca in una pozza rossa, sbattuta in un angolo contro un cassonetto da una macchina in corsa
e là è rimasto il nostro futuro, il mio e il suo, inchiodato fra quelle luci e quei suoni
e lei adesso sta nella sua stanza azzurrina, con cannule e macchine che la aiutano a restare viva. Mi dicono di sperare. Capita che il coma si risolva. Quello di Linda non è senza speranza e io spero, sì, spero che si svegli. Vado da lei ogni giorno e le parlo e le tengo la mano
Al mercatino compro la palla di vetro che, se la capovolgi, scende la neve. Dentro un minuscolo paesaggio di monti e di abeti. Ha anche un carillon. Le note di White Christmas risuonano limpide. La porterò in ospedale e gliela terrò vicina
e tu,Gesù Bambino, fa’ che che queste piccole note la raggiungano là dove adesso si trova. Fa’ che sia di nuovo natale anche per noi, Gesù, fa’ che Linda si svegli.
Li ho conosciuti adulti, i cinque di viale Risorgimento e li ho visti invecchiare, poi, ad un certo momento, sono usciti dalla mia vita, ma li ricordo e se é vero che di alcuni di loro farei volentieri a meno di aver dei ricordi, é altrettanto vero che le storie che li ho sentiti narrare sulla loro infanzia mi sono rimaste impresse nella mente: non che avessero una reale importanza, in ultima analisi erano solo storie di ragazzi, ma il modo in cui venivano raccontate era tale da farle diventare qualcosa fra il magico e l ‘epico, a rappresentare un’ età dorata, con quella caratteristica del ” Ti ricordi quando…?”, che a chi ascolta fa venir voglia di saperne di più, mette in moto il meccanismo di un’ elementare, primigenia , istintiva curiosità.
Quando parlavano di viale Risorgimento, i cinque adulti diventavano dei narratori nel vero senso della parola e noi si stava ad ascoltare e si annuiva e si rideva con loro.
Ti ricordi di quando avevamo il cane che a furia di stare alla catena era diventato cattivo, ti saresti incazzato anche tu, se un bel giorno ti avessero legato per il resto della vita, e poi una volta scappò e saltò adosso a quel certo Piero che veniva a giocare nel parco con noi e ci volle del bello e del buono per cavarglielo di bocca? E ti ricordi il padre come s’ arrabbiò quando lo seppe? Ne disse di tutti i colori. E il Piero non si fece più vedere.
E ti ricordi che quando si faceva sera e si avvicinava l ‘ora in cui il padre sarebbe rientrato, si correva a nasconderci, sotto i letti, anche nella legnaia, perché sapevamo che la madre gli avrebbe raccontato tutto quello che avevamo fatto durante il giorno e lui ce le avrebbe suonate? Era una specie di rituale: lui rientrava, la madre si sfogava, lui menava.
Ti ricordi di quando avevano preso quella maestra che doveva darci ripetizioni e noi si scappava giù per la collina e da lontano sentivamo la voce della madre che chiamava i nostri nomi sempre più alta e disperata e poi alla fine si arrendeva e rimandava a casa la signorina? Si scampava alla noia dello studio, ma che botte, la sera!
Ti ricordi di quando, la guerra era appena finita, si andava per i boschi e si trovavano pallottole qua e là e noi le raccoglievamo toglievamo la polvere dai bossoli e poi le davamo fuoco e si stava a guardare l’ attimo dello scoppio e poi il fumo nero e di quando accendevamo un fuoco e ci buttavamo dentro una manciata di proiettili poi correvamo a nasconderci dietro i tronchi degli alberi e contavamo gli scoppi, uno due tre dieci, che siano scoppiate tutte? Incoscienti si era, incoscienti, ma che gran ridere !
Ti ricordi di quando lui voleva fare l’ uomo della giungla e si arrampicava su per i tronchi dei pini vecchi di secoli e poi cercava di saltare da un albero all’ altro, e che ti credevi d ‘essere Tarzan? e poi una volta non ce la fece e cascò giù di brutto e proprio sopra un rotolo di filo spinato che i tedeshi avevano lasciato là? Quando lo recuperammo rideva e faceva sangue da cento piccoli buchi sulla pelle; la madre lo disinfettò da capo a piedi e il padre gliele diede di santa ragione.
Ti ricordi quando quell ‘altro infilò il dito nel collo di una bottiglia in cantina e poi non riusciva più a toglierlo e così ebbe la pensata del secolo: spaccò la bottiglia su di un sasso e si fece un taglio lungo quanto il dito?
Ti ricordi di quando i tedeschi ci requisirono metà casa e vi installarono un centro di comunicazione radio e ogni tanto uno di noi andava di là da loro e che meraviglia, vedeva la luce elettrica splendere in ogni stanza, abbagliante quanto opaca e tremula era la luce delle candele delle nostre stanze: sembrava un miracolo, sembrava una favola!
Ti ricordi il freddo che ci faceva in Viale Risorgimento, tanto che per andare a letto si riempivano delle bottiglie di vetro con dell’ acqua calda e poi si cercava di tapparle meglio che si poteva e si mettevano sotto le lenzuola per scaldarle almeno un poco e che disastro quando capitava e capitava spesso, che durante la notte il tappo venisse via e l’ acqua ormai fredda bagnasse il letto!
Ti ricordi di lui, e di quell’ altro e di lei e della madre e del padre, di tutti noi e di come vivevamo e di come eravamo, dei disastri che combinavamo, di te che sei rimasto attaccato ai fili della corrente , di lei che per un pelo non ci restava per via dell ‘ossido di una stufa difettosa, di quello piccolo e biondo che alla mattina, quando si usciva per andare a scuola, si nascondeva dietro il battente della porta d’ingresso lasciato aperto per farci uscire, cosicché quando la madre con la piccola in collo veniva a chiudere, lo trovava regolarmente rannicchiato fra il muro e la porta ed ormai s’ era fatto tardi e lui a scuola non ci andava, ti ricordi?
Quante cose da ricordare, quanto passato da ricostruire oggi che gli anni sono volati via e si sono portati appresso alcuni successi, tanti fallimenti, ed amarezze e disillusioni, oggi che abbiamo dei figli che fanno dannare come é la regola e noi ancora a parlare di Viale Risorgimento!
Non si rendevano conto, i cinque, che raccontavano ai figli una favola bella, un ‘ avventura vissuta realmente, che lasciavano loro una parte importante di se stessi: l’ immagine di un mondo ormai finito, di un parco immenso dove l’ impossibile diventava possibile nella memorabilità del racconto.
Sarà forse perché io non so dove mai siano le mie radici, le ho perse per strada tanti anni fa o forse vi ho rinunciato per scelta deliberata, che tanto mi colpirono i racconti dei cinque e tanto invidiai quella loro terra che non esiste, alla Peter Pan, nel ricordo della quale potevano ritornare giovani e giovani rimanere anche da adulti, perché erano riusciti ad isolarla nel mare della vita e a farne un mito: a tutti dovrebbe spettare il diritto di riflettersi ogni tanto in uno specchio magico.
Zdzisław Beksiński, ZĄ, 1998
Quando la luce da bianca si era fatta azzurrina con punte color di cenere, anche gli oggetti si erano trasformati, assumendo forme strane, spigoli e curve che non si erano mai visti. Si faceva fatica a coglierne le nuove dimensioni che erano, poi, apparenti. Così gli oggetti spesso cadevano di mano e si spiaccicavano al suolo. Pareva d’ essere alla fiera della rottamazione, solo a guardarsi in giro. Lui non trovava più il suo power book. Nel senso che s’ era liquefatto nell’ azzurro scuro di una sera fra le pareti e gli apparecchi sulla scrivania, inghiottito da ombre che correvano nell’ aria e parevano divorare in un uniforme colore tutto ciò su cui si avvolgevano. Eppure, c’ era. Lo sentiva. Ne sentiva il fruscio, il richiamo del modem acceso, spento poi di nuovo acceso. Ormai era sfinito dalla ricerca. Andando a tentoni sui piani prima, a mezz’ aria poi, infine tendendo le braccia e le mani verso l’ alto, tastando il niente sperando di sentire sotto la pelle il contatto con la superficie liscia del monitor. E aveva paura. Paura di sparire anche lui, come persona, come, si diceva, tanti avevano incominciato a sparire, trasferendosi chiamati da nuovi impulsi, nell’ altra dimensione. Lui non ne voleva sapere di andarsene. Non ancora almeno.
Doveva mettere le mani sul power book. Doveva trovarlo, vederlo, usarlo. Solo dopo, avrebbe potuto lasciarsi andare al richiamo sottile di quell’ aria nuova, di quella luce opalescente. Quando s’ avvide che le mani incominciavano a farsi trasparenti, lo prese il panico. La ricerca diventò frenetica, senza rigore logico, senza lucidità. Solo bisogno istintivo di trovare: necessità fisica. Chiuso nell’ ufficio da giorni, ormai, mentre la luce si faceva sempre più scura e il fenomeno non era più analizzabile, casualmente lo trovò in un angolo dove aveva cercato, tastato un miliardo di volte: come se lui e il pc avessero fino ad allora giocato a rimpiattino. Lo prese di furia, lo tenne stretto come un disperato, ne cercò alla cieca i pulsanti, la tastiera, il mouse, individuò i comandi, attivò il modem, si connesse: funzionava così, anche alla cieca. Controllò la posta elettronica: sentiva solo fruscii. Il monitor acceso azzurro cenere trasmetteva immagini sfocate che impallidivano subito e subito sparivano. Si cancellavano. I messaggi svanivano in pochi istanti, neanche il tempo di leggerli e non c’ erano più. Lui ne cercava uno, solo uno e alla fine lo trovò: comparve per un secondo e sparì: ma il tempo era stato sufficiente per leggere le due parole e rapido fare un reply:
“Ti amo” diceva il messaggio
“Ti amo” diceva il reply.
Poi niente ebbe più una grande importanza.
Da Snail