Archive for the 'racconti brevi' Category

l’ importanza delle minime cose

aprile 9th, 2012 by admin

Ne sentiva il respiro, così quieto. Solo a tratti si sfaceva in un sospiro affannato.

C’ è tempo, si disse. C’ è ancora tempo.
Ma sapeva che, a breve, l’ alba sarebbe filtrata attraverso le fessure degli scuri. Presto.
Aveva timore di ogni nuova alba. Di ogni nuovo giorno, perché sapeva che, alla fine, un giorno sarebbe sorto a toglierle una parte di lei. A lasciarla monca. E sentiva che il tempo si accorciava, come una corda sfilacciata fino al punto di rottura.
Raddrizzò le spalle. Lei era sempre stata una donna forte. Capace di far fronte alla vita. Alla fatica. Alla miseria. Alle infinite responsabilità. Lei.
Che venga, dunque, si disse dentro, quel giorno! che venga e mi lasci dimezzata. Io non cadrò a pezzi. Io gratterei la terra con le unghie e mangerei l’ erba del campo dietro casa e spezzerei la schiena a scavar radici, pur di evitarlo. Ma non servirebbe, a niente.
E allora lasciatemi riprendere e riporre al caldo, qui, nel palmo della mano, i miei tanti anni indietro e i miei ricordi, tesori di speranza e lavoro, di gioie e dolori: che altro è mai vivere, se non questa altalena costante?

Se lo disse in un sussurro, una donna forte e testarda, avvezza alla lotta.

Vagò indietro, socchiudendo gli occhi stanchissimi e duramente si impose il viaggio.
Gli anni passati lontani dal paese, emigranti, lui e lei, per un lavoro che permettesse loro di fare un po’ di soldi, il piccolo tesoro necessario a costruire la casa sul terreno dei loro vecchi. Una casa per tutti loro, che tutti li accogliesse. Anni felici, anni duri, e già arrivavano i figli, una piccola, poi un’ altra. C’ erano i rientri veloci al paese, dai genitori che ogni volta si facevano più anziani. Poi vennero i primi soldi da mandare a casa, perché si incominciasse a costruire e poi ci fu lui che scavava le fondamenta, e incominciava a tirar su i muri.
C’ era voluto tempo e una lunga lontananza, ma alla fine la casa fu terminata e loro ritornarono al paese, dove d’ inverno scendeva gelida l’ aria dalle montagne tutto intorno e il freddo si condensava sui vetri delle finestre nuove e lasciava ricami di brina.
Ma lei teneva accesa la fornella e scaldava i muri ancora umidi di pittura e cucinava e lavava e stirava e partoriva un altro figlio. Mentre lui lavorava alla fonderia fuori dal paese da mattina a sera.

Si scosse e si alzò dalla poltrona su cui aveva vegliato, la notte, e andò in cucina.
La fornella, si disse. Devo accenderla. Subito, prima che la casa diventi troppo fredda. Armeggiò con la legna e presto la fiamma brillò.
Conosceva così bene la casa, la disposizione di ogni mobile, di ogni singolo oggetto, che riusciva a muoversi al buio senza il minimo rumore, senza paura di inciampare o di far cadere a terra alcunché.

Presto farà caldo, si disse e tornò in camera si sedette di nuovo e riprese la loro storia fra le mani, sgranandola come grani di un rosario.
Le venivano alla mente cose da nulla, piccole faccende, gesti senza importanza e parole piene nella loro brevità. Non c’ era stato mai un qualche evento straordinario, si rese conto, qualcosa di travolgente e meraviglioso. Solo una vita comune. Eppure capì, lo capì di colpo, che ogni piccolo gesto, ogni scampolo di parola, ogni minima cosa, sommandosi gli uni alle altre, avevano formato, nel tempo, un miracolo. Che altro era stato il loro vivere insieme?
La volta che lui le aveva stretto la mano forte. Ce la facciamo. Fidati.
La volta che si erano guardati, senza parole e senza parole era entrati, fianco a fianco, nella casa appena finita.
La volta che la piccola aveva cominciato a camminare e andava incontro a lui che rientrava dal lavoro.
La volta che lui le disse: Tua madre non può star più da sola. Falla venire qui. Ci penso io, a lei.
Le infinite volte che…, tante da averne perso il conto. Frammenti che tutti si riaffacciavano in quell’ ora di fine notte, e bussavano, forte, alla porta, per essere accolti.

Perché? domandò. Se lo era chiesto spesso negli ultimi tempi. Perché? Mio Dio, c’ è tanta gente malvagia in giro, gente che ruba e ammazza, perché non ti sei preso uno di loro, invece di lasciarli vivere fino a diventare vecchi, perché?
Non riusciva a capire e sapeva che non lo avrebbe capito mai. Avrebbe accettato, questo sì, ma capito, no.

Lui si mosse appena.
Nora.
Sono qui.
Gli sfiorò il polso, pose la sua mano sulla mano di lui. Una mano grande. Buona.

Rimase ferma. Poi fu l’ alba, rosata. Entrò in punta di piedi nella stanza lasciando ditate delicate sul pavimento.
Nora sentì la mano di lui distendersi un attimo e un fremito di sangue le corse il ventre.
La mano ebbe un brivido. Breve. Niente altro.
Nel silenzio le sue dita si muovevano, accarezzando la mano di lui, percorrendo ogni dito dall’ attaccatura all’ unghia, uno alla volta. Così. A lungo. Finché non sentì esploderle dentro, nel petto, un ansito enorme che gridava e il senso dell’ amore, dell’ amore per lui, quasi la travolse, accecandola, togliendole il respiro. Fino a star male.
Ponendo il sigillo a ciò che era stato, perché niente andasse perduto.

Poi lentamente il mondo smise di girarle intorno, ogni cosa ritrovò il suo posto e lei rimise i piedi a terra, frastornata.

Quante cose dovrei fare, adesso! pensò.
Dovrei telefonare, si disse. Ai figli, certo. A chi, poi? ai parenti, agli amici, anche a quelli che, di fronte alle difficoltà, alla malattia, gli avevano girato le spalle? che si erano disinteressati di lui?
Anche a loro. Ma non adesso. Non me la sento. Perché quando avrò fatto il primo numero, ecco, allora tutto questo sarà vero. Un fatto concreto. Adesso è ancora solo un’ ipotesi di dolore, che posso gestire come una nuova intimità.

Perciò, no, non adesso. Siamo partiti insieme, io e lui. La chiudiamo insieme, io e lui, da soli, questa porta.

Così rimase lì, a contarsi e a contargli i perché e i per come dei giorni, finché non sentì aprirsi la porta d’ ingresso e la voce del figlio chiamare, sottovoce: Ma’? dove sei?
Solo allora si alzò. Dritta sulla schiena, andò in cucina, il figlio era davanti alla fornella rovente, le mani tese verso il calore.
E il giorno entrava a fiotti dalle finestre, era la luce opaca della fine inverno che già germogliava di semi e profumi di una primavera che lei avrebbe percorso pian piano, portandosi appresso ogni sua minima cosa, mantenendola fragrante come pane appena sfornato. Per tutto il tempo che ancora restava.

Dedicato a V., un uomo buono

9 Febbraio 2010

Il giorno che tamponai il cassonetto del rusco

ottobre 9th, 2011 by admin

Immagine di Robinya

Anche quel giorno incominciò con il suo bravo ” niente di nuovo sul fronte occidentale” e neppure, ad essere onesti, sugli altri fronti. Tutto di vecchio, anzi. La solita sveglia compì il suo dovere di sveglia, scaraventandomi fuori dal sonno che poi non era un gran bel sonno, ma sempre qualcosa di simile al riposo, o perlomeno all’ assenza di pensiero con quel che pensare si porta appresso. Come da regola allungai la mano a farla tacere, e come da copione mi alzai, immusonito e risentito. Erano già le sette. Solo le sette. Passai in bagno. Andai in cucina. Il rituale dell’ appena alzato ebbe così inizio. Caffettiera sul fornello. La voce del notiziario in sottofondo. Non che neanche lì, nelle news del TG, ci fosse qualcosa di extra. Era la solita menata: incidenti in tutti i paesi del mondo o quasi, borse in calo, previsioni sul futuro della global finance da far stramazzare un elefante, figurarsi un piccolo investitore come me, e poi cronaca nera, un altro omicidio – la polizia è sulle tracce dell’ assassino -, un’ altra villa svaligiata – la polizia indaga -, un barbone morto di freddo – pare – trovato fra i suoi cartoni, una delizia di dejà vu, insomma.

Intanto il caffè gorgoglia. Lo verso. Buono. Quasi quasi mi lascio andare ad un istante di godimento papillare. Non c’ è tempo. Rasatura. Mi taglio o non mi taglio? Decido per il non. Uso il rasoio elettrico, vecchio ma tranquillo. Dopobarba da ipermercato reparto profumeria. E se facessi un colpo di vita e me ne comprassi un flacone di quelli veri? Super, dico.

Pantaloni, camicia, cravatta a nodo scorsoio – uno di questi giorni finisce che mi ci impicco con una cravatta -, giacca di tweed. Soprabito? Impermeabile? Che aria tira fuori? Occhieggio di sbieco la finestra. Mica ne ho voglia di aprire i vetri e saggiare l’ aria. Anche perché prima dovrei tirare su le tapparelle e quella della camera ha il nastro rotto e non si può.

Che poi io abbia un cattivo rapporto con i nastri delle tapparelle che mi si rompono all’ improvviso e con frequenza demoniaca, lasciandomi nell’ oscurità, è un dato di fatto. Casa mia pare una scacchiera: stanza al buio per tapparella ingestibile, stanza piene di luce per tapparella rimasta inchiavardata in alto e così via. Quando avrò tempo e voglia le riparerò.

Fino ad allora, che mi frega? Mica si vive di tapparelle.

Guardo il soprabito. L’ impermeabile. Li mando entrambi a quel paese.

Acchiappo la borsa con il power book, è il mio lavoro vivere in simbiosi con i computer.

Esco in giacca. E fuori c’ è un freddo birichino, direbbe quella brava donna di mia madre, sempre fine, lei. Casa tirata al burro, la sua. Quando entri ti fa cambiare le scarpe,. Praticamente ti infila le ciabatte, lei. Le sue tapparelle stanno al loro posto. Le ha educate bene, lei.

Il freddo mi strina la faccia che già mi brucicchia per il dopobarba. Mi penetra sotto le maniche della giacca, mi scava sotto la camicia, mi pizzica la pelle. Mi sento l’ occhio torvo. Torvamente apro la portiera dell’ auto. Dentro c’ è ancora più freddo, pare impossibile. Il lunotto e il parabrezza sono coperti da un leggero strato di ghiaccio. Sbrinamento. Si sta facendo tardi. Scaldo il motore. Dallo scappamento vedo uscire una folata bianca. Insomma è un inverno da far schifo. Cambia qualcosa per me? Inverno o estate, dico. Non cambia niente.

Eppure dovrebbe.

Cambiare qualcosa, un pelo solo, magari.

E se non cambia niente è colpa mia. Mica di un altro.

Mica di mia madre. Mica della vita.

Sono io che sono un fesso.

Lo sbrinatore fa il suo dovere, il ghiaccio si sta sciogliendo. Si aprono chiazze trasparenti e umide sul parabrezza e intravedo gambe in movimento, auto che passano, gesti frettolosi di gente infreddolita. Sento un clacson impaziente. Il solito fiume che scorre ogni mattina verso il lavoro, ininterrotto, di corsa, perennemente in ritardo, perennemente sull’ incazzato, poche speranze, sempre meno sogni, salvarne uno è già un successo, e poi l’ ufficio, la fabbrica, i colleghi stronzi anzichenò, il boss che spacca, pretese…

pretese di puntualità

d’ efficienza

di affidabilità

di onestà

di abnegazione, perché no?

Ma io? Io, io, io, porco di un mondo ladro, io vorrei un po’ d’ aria.

Si soffoca in auto, adesso. Abbasso il riscaldamento – quando l’ ho acceso non ricordo e non mi importa -, ingrano la retro e vado. Sparcheggio. Rapido.

Il botto mi prende alla sprovvista. Ho dato dentro al cassonetto del rusco dietro a me. Il cassonetto rimbalza. Sussulta. Un ragazzo si ferma e guarda.

” Vuoi qualcosa?” gli faccio. Se ne va.

Prima, freccia, cerco di inserirmi nel traffico. Ci ripenso. Retro. Tampono di nuovo, di brutto, coscienziosamente, il cassonetto. E che nessuno mi chieda il perché. Son cazzi miei.

Favole ri-visitate: Cenerentola

giugno 30th, 2011 by admin

Cenerentola era una brava ragazza. Aveva accettato di buon grado che il padre vedovo si risposasse, aveva accolto la matrigna con affetto e le due sorellastre quasi con gratitudine: finalmente due altre ragazze in casa con cui chiacchierare e scherzare, due amiche insomma Aveva pianto tanto alla morte del padre poco tempo dopo le seconde nozze: gli aveva voluto un gran bene, com’ era giusto, in fin dei conti l’ aveva cresciuta lui, facendole e da padre e da madre.

Già, proprio una brava ragazza, Cenerentola.

Ma, come ben si sa, dopo la morte del padre, le cose cambiarono. In una parola, la matrigna e le due sorellastre rivelarono la loro vera natura: erano pigre, egoiste, perfide e terribilmente invidiose di Cenerentola per due fondamentali ragioni, la sua bellezza e la sua ricchezza. Il padre, infatti, aveva lasciato un patrimonio in eredità alla figliola, provvedendo però con una rendita generosa alla seconda moglie ed alle figlie di lei. Quanto al primo punto, c’ era poco da fare: si potevano negare a Cenerentola i vestiti all’ ultima moda, si poteva farla sgobbare fra fornelli e panni da lavare da mattina a sera, ma bella era e più bella si destava ogni giorno. Certo, non la vedeva nessuno, piena com’ era di faccende da sbrigare e ci si poteva togliere la soddisfazione di trattarla come una serva, giusto per vendicarsi di tanta bellezza. Per quanto concerneva l’ aspetto finanziario, era stato sufficiente dire alla brava ragazza, affranta per la perdita del padre, che di tutto il patrimonio era rimasto poco o niente, raccontarle una storia di speculazioni sbagliate, di debiti e lei ci aveva creduto e aveva ben capito perché si dovessero fare delle rinunce: che poi le dovesse fare solo lei, questo era un altro discorso. Ma era una brava ragazza e, se mai le venne in mente di porsi la domanda, fiduciosamente l’ accantonò in un angolo dell’ anima delicata.

Così Cenerentola lavorava e lavava e stirava e cucinava e faceva da cameriera in casa propria, vestita di vecchi stinti abitucci che le stavano anche un po’ stretti sui fianchi e pensava che la matrigna e le sorellastre avrebbero finito per cambiare comportamento verso di lei: bisognava capirle, erano nervose, certo, e pungenti come api d’ estate, anche, ma era comprensibile. Quanti problemi doveva avere la matrigna per far quadrare i conti e comprare la carne di filetto per le figliole e abiti e nastri e pizzi, erano le sue vere figliole d’ altra parte e, no, non era giusto, ma si poteva capire che desse loro la precedenza rispetto a lei.

Le cose erano a questo punto quando accadde quello che tutti sanno: il principe arrivò in città, il re suo padre indisse grandi festeggiamenti per il suo ritorno culminanti in un gran ballo. Anche Cenerentola  avrebbe voluto parteciparvi, ma niente da fare. Quella sera, dopo che la matrigna e le sorellastre se ne erano andate a palazzo tutte in ghingheri, incipriate dai capelli alla punta dei piedi, brutte come il peccato, Cenerentola uscì in giardino, dalla porta della cucina e sedette sulla panca di legno sotto il melo. Era una gran bella notte, con il faccione tondo della luna sorridente in alto ad inondare di luce d’ argento il bel visino triste della fanciulla che ormai non riusciva quasi più a trattenere le lacrime, e poi perché mai avrebbe dovuto trattenerle? Era dunque una bella notte, notte da favola. Cielo blu e stelle a migliaia come capocchie di spilli d’ argento su un cuscinetto di velluto.  L’ aria era tiepida e profumata e Cenerentola sospirò una volta, due volte. Sospirò tanto forte che per un momento credette che il petto le sarebbe scoppiato. Era delusa: in fondo aveva cercato di far sempre la brava ragazza, d’ essere paziente, servizievole come il padre avrebbe voluto, ma però………E fu la luce. Nel senso che una sfera di luce fortissima apparve davanti agli occhi della fanciulla che la fissò come ipnotizzata, mentre roteava a più non posso per poi bloccarsi e prendere una forma allungata, ovale dapprima ed infine ecco che da quella specie di O lungo e stretto prese forma una figura snella ed aggraziata con indosso un abito da pomeriggio firmato Ferré e accessori in tono. La signora diede una toccatina alla tesa del capello, un’ occhiatina alla riga delle calze, era dritta, poi con occhi verdi truccati quel tanto che occorreva, fissò Cenerentola che a sua volta fissava quello spettacolo a bocca spalancata. Sapeva di aver la bocca aperta e che non era bello a vedersi, ma proprio non ce la faceva a chiuderla.

“ Chiudi un po’ quella bocca, che sembri un’ oca. Avanti, su, fatti vedere. In piedi, bambina. Che ti credi, che mi sia presa la briga di venir fin qua per stare a guardarti ? Di’ un po’, sei tonta? No? Bene, se no l’ avrei saputo. Sono la tua fata, la tua  fata madrina e noi sappiamo tutto dei nostri figliocci. Non sapevi d’ aver una fata? Non fa niente. Ce l’ hai. Sì, sì, lo so, avrei dovuto venire prima, per come si mettevano le cose, ma cosa vuoi……Insomma adesso sono qui. Uhmm…bel personalino. Che orrore di vestito e che taglio di capelli!

Non parlare. Bisogna sistemarti un po’. Ah, dimenticavo: lo sai, vero, che sei ricca, anzi ricchissima? No? Ma allora sei proprio oca. Non parlare. Tuo padre ti ha lasciato una montagna di soldi e quelle tre stanno intrigando per metterci le zampe sopra e tu non hai capito niente. Non parlare. Dove vai? Devo sistemarti un po’. Dove vai? Ma guarda un po’ questa gioventù! Ma va’ dove ti pare! “ La signora fu di nuovo un cerchio oblungo, una sfera di luce e poi il completo di Ferré sparì.

Cenerentola era una brava ragazza. Un po’ troppo fiduciosa, un po’ tonta forse.  Ma alle parole del la fata, (fata madrina, quella?Mah!) aveva capito tutto. Di colpo.

Entrò in cucina. Si lavò il viso con acqua fresca. Si ravviò i capelli castani  lucenti e sedette nell’ atrio. Attese.

Alle due del mattino, le tre rientrarono, starnazzanti come oche capitoline. Entrarono e si bloccarono: Cenerentola era proprio in mezzo all’ atrio e non aveva più l’ aspetto della brava ragazza. Aveva in mano il cinturone di cuoio che il padre indossava per la caccia e lo dondolava pian piano. Incominciò ad usarlo, senza profferire una parola, menando colpi alle natiche delle tre che, strillando e correndo, inciampavano nelle lunghe vesti da ballo e cadevano, si rialzavano e le cinghiate cadevano cadevano cadevano ed erano pesanti e dolorose, dolorose e pesanti. Inesorabili.

Non occorsero parole: era tutto chiaro. Cenerentola non era più Cenerentola e non era più la brava, buona figliola che era stata e di questo ella non riuscì mai a perdonare le tre: le avevano aperto gli occhi sul come vanno le cose nella realtà, e questo non lo si può perdonare: a nessuno.

Quanto poi al principe e alla scarpetta di cristallo, é tutta un’ altra versione della favola.

Favole ri-visitate: La Bella addormentata

giugno 27th, 2011 by admin

Immagine da http://fc01.deviantart.com

La principessa che era stata la Bella Addormntata, ormai da cent’anni viveva felice e contenta nel suo castello insieme al principe Azzurro che un tempo lontano l’ aveva risvegliata con un bacio dal sonno malefico.

Con il passare degli anni s’ era fatta, come dire, non vecchia, ché le principesse, si sa, non invecchiano mai, ma un po’ cicciotta e i lunghissimi capelli biondi erano diventati fragili come i fili argentei di una ragnatela. Anche l’ abito azzurro era un poco stinto, appena appena è vero, ma insomma, non era proprio splendente.

Viveva la principessa felice e contenta. Lo sposo, ché, si sa, alla fine, dopo quel bacio, lei ed il principe Azzurro s’ erano sposati, lo sposo dunque ogni mattina, al risveglio, si chinava da cent’ anni su di lei e la baciava: ogni mattina. Ne era un poco stufa di quel bacio alle sette di mattina, estate e inverno, autunno e primavera. Ma taceva e apriva gli occhi al nuovo giorno anche se era già sveglia da ore, solo dopo che lo sposo l’ aveva baciata: lui ci teneva a farlo e si sarebbe offeso se si fosse accorto che lei poteva destarsi anche senza il suo aiuto.

Il principe Azzurro era sempre bello, un po’ bolso, per dir la verità, come il suo cavallo bianco, ma baciava ancora bene e anche se si lamentava degli spifferi che attraversavano i saloni del castello che era vecchiotto e aveva bisogno di venir ristrutturato, anche se mangiava troppo,  non andava volentieri  in giro in cerca di gente da aiutare e se ne stava più volentieri a casa, davanti al camino, a gambe stese, il principe Azzzurro dunque faceva ancora la sua figura in groppa al cavallo bianco.

Così la principessa viveva da cent’ anni felice e contenta e, a parte la faccenda del bacio e qualche battibecco con i due principini che volevano sempre fare i loro comodi, rientrando a notte fonda  e se lei chiedeva “Dove vai?”  rispondevano “Boh!,”  ogni cosa era come deve essere in una favola.

A dirla tutta la principessa non ne poteva più. I primi cinquant’ anni erano volati via, poi il tempo aveva come rallentato e le era diventato pesante quel dover sorridere e dover essere carina e gentile sempre e con tutti. Certe volte avrebbe voluto urlare. Che orrore! Le principesse NON urlano. MAI.

Fu così che un giorno ripensando al passato, le venne in mente quel suo lontano malefico lunghissimo sonno, e pensò: “ Quando mi sono risvegliata, mi sentivo bene, tutto era meraviglioso, era come essere appena nata”. E le venne voglia di tornare a dormire.

Su su nella stanza della torre c’ era ancora l’ arcolaio: lo facevano vedere ai turisti come un cimelio di famiglia.

Una mattina, dopo aver finto di farsi svegliare, dopo aver carinamente maternamente salutato i due principini che fecero “ Ohilà” senza guardarla, salì le strette scale della torre, fino alla stanzetta nel centro della quale  troneggiava l’ arcolaio. Si avvicinò e lo guardò intensamente. Fece per spolverarlo con un lembo dell’ abito, poi ci ripensò. La punta brillava: non un granello di polvere, non un filo di ruggine c’ era sulla punta dell’arcolaio. Vi posò l’ indice dolcemente, dolcemente premette e si punse e mentre il sonno l’ accoglieva con braccia prudenti, sentì la voce indignata della fata cattiva che oltraggiata  gridava: “ Che cosa fai? Chi ti ha dato il permesso?”

Nessuno le aveva dato il permesso, se l’ era preso  da sola, lei, la principessa che voleva ridiventare la Bella Addormentata per aspettare dormendo nel suo regno ancora una volta addormentato, di riprendere in un sonno ristoratore le forze che le servivano ad affrontar carinamente gli altri cent’ anni di vita che l’ attendevano al nuovo risveglio.

Favole ri-visitate: Bella e la Bestia

giugno 25th, 2011 by admin

Guai se  non esistessero le favole, guai se mai nessuno avesse pensato a inventare, immaginare, scrivere favole; fanno parte della nostra vita, c’ entrano quando siamo bambini e ci rimangono per tutti i nostri giorni, a volte ci tornano in mente nei momenti più strani, quando meno ce lo aspettiamo, ci sono, sono là nel profondo della memoria e sono parte di noi.

Guai se non ci fossero le favole.

Ecco dunque perché mi scuso per i piccoli, anche se significativi, cambiamenti che vi ho apportato, perché , vedete, ad una certa età, quel vissero per sempre felici e contenti, dà un poco sui nervi e ti viene una voglia velenosa di metterci un freno a questo dilagare di felicità e di ottimismo e di dire:

” Ehi,diamoci una svegliata!” ed anche ” E se non fossero favole,  dico, favole vere, come sarebbero potute andare a finire le storie?”

La solita negatività degli adulti. Infatti queste sono le favole dei grandi, quelle che i grandi si meritano.


Bella e la Bestia


Immagine da www.artepensiero.it

Bella amava il principe che era stato la bestia orrenda che pure le aveva conquistato il cuore con la sua dolcezza e la sua tristezza tanto tanto tempo prima: lo amava ancora. Lei era bella da sempre e per sempre bella: nulla era mutato in lei, non un capello, non un pensiero, non un ricordo e così provava quello che sempre aveva  provato per il suo sposo anche prima di sapere che il mostro era un bel dolce signore.

Era felice Bella e felice ogni mattina si destava, apriva le tende di velluto vede scuro e lasciava che la luce dorata di una primavera perenne penetrasse fin negli angoli più nascosti delle stanze. Poi scendeva e salutava felice lo sposo, lo baciava teneramente, gli accarezzava il viso e quando lui se ne usciva per curare gli affari, ella scendeva nel grande giardino: s’ aggirava felice per i prati, parlava alle farfalle dalle ali che erano tutte un palpito, correva fra le alte siepi curate del labirinto, giocava a nascondino con le api nero dorate. Il suo riso e il loro ronzio erano le voci del parco. Felice badava che tutto fosse pronto ed in ordine per il ritorno dello sposo e lo attendeva da sempre con il cuore leggero come una nuvola bianca.

Una sera lo sposo non rientrò. Bella lo attese finché le candele non consumarono tutta la loro luce, poi continuò ad attenderlo fiduciosa e piena di speranza, finché l’ alba non rischiarò la notte. Lo sposo non era ancora tornato.

Bella lasciò la dura sedia dall’ alto schienale intagliato, gli intagli eleganti le avevano ammaccato la schiena e si raddrizzò, massaggiandosi delicatamente i lombi indolenziti, ma ecco la voce dello sposo, ecco lo sposo. Che gran tempesta c’ era stata! Erano caduti chicchi di grandine da acciaccare un uomo forte e robusto e questo a sole poche miglia a nord del parco pieno di sole! Aveva cercato riparo in un capanno, aveva finito per addormentarvisi e così la notte era passata.

Bella, felice, ascoltò: “ Povero, povero, povero…….”, ma il tenero cuore felice, non sapeva bene perché, sussultava indolenzito.

Dopo qualche tempo, una mattina il principe irrequieto avvertì Bella che si sarebbe addentrato nel territorio a nord: “ Non aspettarmi, mia Bella”, le disse. Era già capitato, ma quando doveva allontanarsi tanto, sempre aveva condotto Bella con sé.

Lo sposo se ne andò e la felicità di Bella s’ incrinò. Dall’ incrinatura dapprima leggera come una ruga su un volto appena appannato dall’ età, poi più profonda, una crepa come di ferita dolorante, uscirono i ricordi della Bestia, Bestia, ma così dolce, Bestia, ma così tenero, Bestia, ma così solo, Bestia che la notte divorava le creature nel parco per sopravvivere, Bestia con cuore d’ uomo innamorato. Bella aveva temuto la Bestia, ne aveva avuto orrore, poi l’ aveva amato e dall’ amore di Bella era rinato il principe: ricordi dell’ incantesimo malvagio, della paura, della felicità. Si rese conto che anche nelle favole i paradisi possono far acqua. Non riuscì a far il conto di quanto fosse il tempo passato, esattamente, forse perché nelle favole l’ esattamente non trova posto. Sapeva che ne era passato di tempo, ma a lei sembrava ieri, solo il giorno innanzi.

Si guardò allo specchio il giorno della partenza del principe e vide una piccola ruga grigia ben dritta, sottile come un tratto di penna, proprio in mezzo alla fronte, fra le folte sopracciglia chiare. Sì, il tempo era passato. Fu consapevole d’ essere vissuta in un incantesimo, avvolta in una magica luce che ogni cosa pervadeva e lasciava immota: ma qualchecosa di nuovo era accaduto. Come quando si lancia un sasso nell’ acqua ferma di uno stagno e d’ improvviso tutto si anima in cerchi concentrici sempre più ampi, allo stesso modo qualcuno aveva gettato un sasso nell’ aria quieta ed immota del grande parco ed ora ampi cerchi concentrici avviluppavano Bella.

Quel pomeriggio si fece sellare la cavalla grigio perla che appunto per questo si chiamava Perla e  lasciò la sua casa, cavalcando a nord, fino al capanno: lì il destriero dello sposo, attendeva quieto. C’ era luce nel capanno. Le si strinse il cuore. Scese da Perla, si avvicinò alla casetta di legno con il tetto di corteccia di pino, toccò la porta: si spalancò.

Lo sposo teneva fra le braccia una fanciulla bruna dai lunghi capelli neri, dagli occhi ridenti, la bocca rossa dalle labbra piene, la  risata come il rombo di nuvole che s’abbracciano prima del temporale. Con il cuore in mano, Bella si avvicinò ai due, guardò la gitana, scosse la testa bionda e si tolse il gran pettine di tartaruga che le fermava i capelli che si sciolsero, ricadendole sulle reni in una cascata d’ oro fuso. Lo sposo la fissava. Bella gli disse: “ Mi dispiace” e, poiché la favola era ormai finita per lei e lei era solo una donna tradita, si chinò su di lui , lo baciò sulla bocca e, provando ciò che provava, mise tutta se stessa in quel bacio. Poi se ne andò. Mentre saliva in groppa a Perla, udì l’ urlo della gitana e il grufolio che ben ricordava dello sposo che ora era di nuovo la Bestia.

Non qui

maggio 26th, 2010 by admin

Ofelia, Waterhouse
Ophelia, J. W. Waterhouse

Aveva un lavoro da schifo, nel vero senso della parola. Un lavoro pagato male, di più, malissimo. Un lavoro che lo teneva inchiodato ad una scrivania troppe ore al giorno, a fare cose che non gli interessavano né gli piacevano, un lavoro che era all’ origine della sua ulcera e della sua insoddisfazione. O forse era l’ insoddisfazione all’ origine dell’ ulcera? Poteva essere. Non era importante. Non più. Perché adesso non gli fregava più di tanto. Adesso aveva capito che ribellarsi e sperare in un cambiamento era inutile, si nasce con un destino, no? Segnati. C’ è chi è fortunato e chi no. E che non gli venissero a parlare del “sei tu che ti fai il tuo destino”. No. Lui ci aveva provato e ci aveva anche creduto, da quel povero fesso che era, che ce l’ avrebbe fatta a sganciarsi da tutto quel ciarpame. Ce l’ aveva messa tutta e aveva fatto del suo meglio per riuscirci. Si era arenato quando si era reso conto che senza raccomandazioni, amicizie di peso, senza leccare il culo a chi di dovere, la sua buona volontà non serviva a un cazzo. L’ aveva capito con il tempo, guardando gli altri, i compagni della giovinezza che si facevano strada, si compravano la villetta, l’ auto coupé, mettevano su famiglia con belle figliole. Lui era lì invece, fermo al punto di partenza, un illuso, uno sfigato che aveva creduto che dar prova di volontà, di capacità, essere affidabile, disponibile, attivo, onesto, sarebbe bastato. Invece niente. Aveva incominciato in quel magazzino, schedando le bolle di consegna. Facendo conti e controlli. In un ufficio senza finestra, con un tubo al neon che spandeva la sua luce bianca sugli schedari di metallo, la scrivania di finto legno, le carte che si ostinava a tenere in ordine. Ci era invecchiato in quell’ ufficio. Sette ore al giorno, ogni giorno. Aveva perso di vista gli amici. Si era rifiutato di prendere in considerazione l’ idea di farsi una compagna, che cosa poteva offrirle? Una vita tirata. L’ attrazione e l’ amore, lo sapeva, perché l’ aveva visto accadere, finiscono nella noia, nel disinteresse, peggio ancora, nelle liti quando manca un benessere decoroso e ci si deve preoccupare per il domani, si deve risparmiare sulla luce, sulle vacanze, sui vestiti. No, non era giusto. Lui si faceva bastare lo stipendio, con gli anni aveva perso le voglie della giovinezza, aveva imparato ad accontentarsi. Si faceva bastare l’  abito grigio invernale, il completo nocciola estivo, si accontentava della bicicletta, di un appartamento di due stanze in affitto in un casermone di periferia. Attraverso i muri sottili sentiva le voci dei coinquilini, quelli di fronte, di fianco, di sotto. Gridavano tutti, sempre incazzati. I bambini piangevano. Le donne strillavano. Spesso oggetti cadevano e si rompevano a terra. Gli uomini sbattevano le porte e andavano al bar. Eppure c’ era stato un tempo in cui la vita gli aveva spalancato le braccia e qualcuno gli aveva fatto credere che tutto per lui sarebbe stato possibile. Si chiamava Cecilia. Lui ne era innamorato. Lei l’ aveva mollato per un altro. Amen. A quel tempo aveva appena incominciato a lavorare nel magazzino. Il primo passo verso il futuro.
“Permesso?”
Alzò la testa dai fogli.
” Posso? Gli uomini, sì, gli operai fuori mi hanno detto di chiedere in quest’ ufficio… “
E allora?
” Sì, è per l’ annuncio… c’ era sul giornale di ieri. C’ è ancora il posto? C’ è ancora? “
Si ricordò che la direzione stava cercando una persona che sapesse usare bene il computer.
Scosse il capo. Noncurante.
” Non c’ è più? Avete già trovato? ” Era giovane, carina, ansiosa.
” Non lo so.” Si decise a dire.
” Deve andare al piano di sopra. Non qui. ” aggiunse quasi di malavoglia.
” Ah, ecco. Quelli fuori m’ avevano detto…”
” No. Non qui. Vada di sopra. Le diranno tutto. Di sopra. ” un filo spazientito.
” Grazie. Mi scusi. L’ ho disturbata. Mi scusi. E’ il mio primo lavoro, sa. E’ importante. Credo d’ essere un po’ agitata. “
” Capisco. “, poi, solo per essere gentile, disse: “Vedrà che andrà bene. “
” Lei dice? Spero di sì. Proprio tanto. Sono uscita dalla scuola da pochi mesi e ho cercato subito d’ impiegarmi, ma non è facile. Per niente facile. E io voglio lavorare. Ne ho bisogno. Come tutti, vero? ” sorrise.
” Già. ” disse lui. Parlava tanto quella ragazza. Forse perché era agitata. Forse era una chiacchierona. Prese su un foglio e chinò lo sguardo a leggerlo, così tanto per farle capire che aveva da fare. Per farla andar via.
” Lei qui che mansione ha? “
Mansione? Ma che accidenti voleva?
” Spedizioni.” grugnì.
” Che computer adopera? “
Chettefrega?
” Pentium… “
” E’ un modello vecchio, troppo vecchio.” Aveva fatto il giro della scrivania e s’ era piazzata alle sue spalle. Lui odiava  la gente alle spalle.
” Senta, signorina… “
” Maria, mi chiamo Maria. Sì, davvero è un modello superato. “
Basta.
” Per quello che devo farci va bene. “
” No davvero. Non credo.  Che programma di posta adopera?”
” Non pensa che farà tardi per presentarsi per il posto? “
” Certo! Stupida che sono! Vado via, è solo che io lavoro sui pc e… va bene, scusi ancora, spero di rivederla. ” sorrise.
Era uscita. Signore, ti ringrazio. Questi giovani non hanno il senso della misura. Quella poi sorrideva troppo, per i suoi gusti.
Si rimise a trafficare. Come sempre, a mezzogiorno scaricò la posta. La direzione inoltrava gli ordini effettuati affinché li schedasse. C’ erano i messaggi di alcuni rappresentanti che citavano i reclami dei clienti per un ritardo nelle spedizioni. E allora? Che si lamentassero con chi di dovere. Lui la sua parte l’ aveva fatta. Che lo scassavano a fare? Li cancellò. Quasi stava per cancellare anche un messaggio  che aveva per oggetto Direzione. Si bloccò un attimo prima di premere il delete. Che cosa volevano?
L’ aprì: ” Salve, mi hanno assunta! Incomincio domani! Ma adesso sono in ufficio: ho chiesto di rimanerci un po’, oggi,  per prendere su l’ aria, come si dice. Volevo salutarla, ringraziarla perché è stato gentile con me e dirle che sono contenta. Ci vediamo presto. Maria”
L’ avevano assunta e lei era contenta. Va bene.
La mattina dopo arrivò in ufficio come al solito, puntuale, ma neppure un secondo prima dell’ orario. Accese la luce, andò alla scrivania, si sedette.
” Buon giorno! ” era sulla soglia, il viso solo un po’ arrossato. Sorrideva.
” Buongiorno.” Rispose. Educato.
” Vado di sopra. Buon lavoro!”
” Buon… ” era già sparita. E lui non aveva fatto in tempo a completare la frase.
Ogni mattina, prima di salire in direzione, Maria passava a augurargli il buon giorno. Alla chiusura passava a dirgli: “A domani!” voce squillante.
Lui pensava che era gentile, ma non capiva perché mai si prendesse quel disturbo.
Poi, lei incominciò a scrivergli messaggi nei momenti liberi. Brevi messaggi, solo poche parole, tipo “Salve, come va?”, cose così insomma. Lui, per educazione, le rispondeva.
Con il passare del tempoi Maria incominciò a scrivere messaggi più lunghi, più chiacchierini. Prima sui colleghi nell’ ufficio, cosine da far sorridere chi ne avesse avuto voglia, poi un po’ più personali. Lui pensò che si sentiva sola oppure semplicemente che era incapace  di star zitta. Imparò comunque che viveva con la madre. Che la madre l’ aveva fatta studiare facendo un bel po’ di sacrifici e che adesso lei si sentiva in debito e voleva aiutarla. Per questo aveva tanto urgenza di mettersi a lavorare.
Schivava tutte le sue domande, come ” che mi racconti di te? “, ” che cosa hai fatto ieri sera?” Non ne voleva di ingerenze nella sua vita quotidiana. Che cosa poi potesse importare a Maria di quello che lui aveva fatto la sera prima, era un mistero. In ogni caso non erano affari suoi. Magari lo chiedeva per semplice curiosità. Ingenua, ma indisponente, curiosità. Così lasciava cadere le domande nel vuoto virtuale, facendo finta di niente. D’ altra parte le sue risposte erano sempre brevi, distaccate. All’ inizio voleva tenerla a distanza. Poi, con il passare del tempo, i messaggi diventarono una consuetudine e si trovò a scaricare la posta con una cera ansia, sperando di trovarci qualcosa di Maria. Generalmente c’ era. Si accorse che rimaneva deluso, quando non ne trovava e la cosa lo preoccupò un tantino. Lui di delusioni ne aveva già avuto la sua parte. Non voleva correre rischi.
Una sera Maria passò a salutarlo come al solito. Era contenta. Sorridente come sempre. Fiduciosa. In sé, nel futuro, nelle cose importanti della vita. Si salutarono. Lui spense la luce, uscì. Maria si allontanava lungo la strada stretta ad un tipo alto, jeans e giubbotto. ” Ecco. Così.” pensò lui.
Fece il giro lungo per tornare a casa. Per prendere un po’ d’ aria. Per pensare ai giovani e ai loro amori. Aveva creduto che non avrebbe mai rimpianto la giovinezza con tutti i suoi sogni, le sue illusioni. Invece quella sera la rimpianse.
Il giorno dopo era sabato. Il lavoro sarebbe ripreso solo lunedì. Ebbe due giorni per fare i suoi lavori in casa, riordinare e pulire. Aveva imparato da tanto di quel tempo a far le faccende che ormai gli veniva naturale e spontaneo. Fece il bucato, rammendò i calzini. Fece una passeggiata. Al telegiornale delle otto, la domenica sera, imparò che Maria era morta. L’ avevano trovata strangolata in un viottolo dietro il parco delle Radici. “… la polizia indaga.”
Ecco. Così. Indagano.  Era strano. Non provava rabbia.  Era quella l’ ultima delusione? L’ ultimo tradimento della vita? Era vissuto fino ad allora per quello? E Maria, per che cosa era vissuta? Per arrivare a quella morte? Così giovane, così tutto. Dire che era ingiusto non bastava. Non serviva. Spense il televisore. Le voci gli davano fastidio. Si sedette su una sedia, mise il gomito sul tavolo e appoggiò la fronte alla mano. Chiuse gli occhi. Voleva silenzio.
Il lunedì, venne la polizia a far domande lì dove Maria aveva lavorato.  Andarono in direzione. Lui entrò nel suo ufficio. Accese il computer e scaricò la posta. Provava la solita sensazione di attesa. Nonostante tutto. Era il suo rituale. Lo compì come facesse un pellegrinaggio.
Ma il messaggio c’ era. E parlava di un giovane conosciuto da poco e che si chiamava così e così e aveva tot anni e lavorava dalla tal ditta, e abitava…, sì c’ era anche la via… e c’ era che quel sabato aveva un appuntamento con lui e così non sarebbe tornata a casa dopo il lavoro, ma sarebbe andata al cinema con lui e …” sai, mi piace, ride che è una meraviglia e potrei anche innamorarmi, vedremo. Tu che dici? Adesso vado via, ma volevo raccontarti tutto prima di uscire… sono così felice…”
Bene. Ecco. Così vanno le cose. Sentì la polizia scendere e poi qualcuno aprì la porta:
” Qualche domanda, per favore. Conosceva …. “
 
Sì. La conoscevo. Era giovane, carina, fiduciosa e ci credeva, nel futuro. Che sarebbe stato bello. Magari non perfetto, ma bello. Ecco, vedete, ci scrivevamo via e mail. Così.

Natale

dicembre 12th, 2009 by admin

Tom Chambers, Night light

Ci si era arrivati un’ altra volta. Sì, era di nuovo Natale. Insomma, non natale nel senso del giorno di Natale, ma nel senso del periodo di natale, quando la città di sera si accende di luci colorate che incorniciano le entrate dei negozi e addobbano i monumenti del centro storico, quando i babbi natale scampanellano agli incroci, sorridendo ai bambini, con gerle piene di caramelle minuscole e il caldarrostaio all’ angolo dove via Indipendenza sbuca in Ugo Bassi, proprio dietro la schiena del Nettuno, chiama i passanti, insistente, con il profumo dei marroni arrostiti.

Bene. Ci si era. A Natale. Che poi, a ben guardare, a lei che fosse natale non ne poteva importare di meno. Non cambiava una grinza. C’ era la rottura di dover fare la spesa per tre giorni infilati. Per il resto, tutto come sempre. Non accettava che, poiché era natale, tutti dovevano, sì, dovevano, avevano il preciso dovere d’ essere felici, quantomeno contenti e … buoni. Una pirlata. Da bambini. Ecco, giusto: per i bambini poteva essere una bella cosa, papà natale, le renne, i regali, Gesù Bambino, la mucca e l’ asinello, i pastori sotto il cielo stellato di un paese lontano (mica tanto, poi, si potevano sentire gli echi degli spari, si potevano). Ma sì. I bambini si incantano con facilità. Per i grandi tutto si risolveva in una corsa per negozi. A spendere più di quanto ci si potesse permettere, a progettare vacanze in montagna o in qualche paese caldo.  Quelli che stavano a casa, si buttavano su pranzi da otto portate, panettoni, pandori ad addolcire vecchi dissapori famigliari destinati a confluire, intatti, nel nuovo anno.

Stando così le cose, lei ci aveva dato su alle celebrazioni natalizie un bel tot d’ anni prima. Quando il figlio ormai cresciuto non aveva più richiesto l’ allestimento del presepe in casa, sotto l’ albero comprato al mercatino dei pini e aveva invece chiesto i soldi per andare a sciare con gli amici. Non ne era rimasta dispiaciuta e tantomeno stupita. Riteneva che fosse giusto così. Lei lo sapeva bene che cosa vuol dire essere giovani, sentirsi compressi e strizzati fra i “no” di una famiglia che, per il tuo bene e poiché ti vuole bene, vuole che tu santifichi “in casa”  ogni ricorrenza, ogni festa comandata e non. Ne portava i segni. Ancora. Nessuno e niente glieli avrebbe più tolti.

Lo sapeva che di lei dicevano che era strana, queste erano le voci gentili, chiusa, queste le voci dei parenti  psicologi dilettanti, antipatica e egoista dicevano i detrattori. Non le importava. Anche perché, pensava, ci aveva provato a essere famigliarmente idonea, ma c’ era sempre chi non coglieva il suo sforzo di buona volontà o non lo riteneva sufficiente e trovava da ridire. Così li aveva mandati a quel paese in mucchio e si era reimpossessata della sua individualità. Buona o cattiva che fosse.

Era, pensò, un natale senza neve. E meno male. Ci mancava di dover sguazzare nella poltiglia nerastra che è la conseguenza immediata delle nevicate in città. Faceva freddo. La gente passava avvolta in pellicce, in montoni, in lunghi giubbotti imbottiti, rivestiti di tessuto in microfibra. Dalle vetrine occhieggiavano guanti, sciarpe, berretti, stivali. Un negozio esponeva lingerie sottile e spumosa: rabbrividì e passò oltre. Stava tornando a casa dall’ Istituto di ricerca, dopo un altro pomeriggio speso, appunto, a far ricerche con un manipolo di colleghi “strani”, chi più, chi meno, come lei. Ci stava proprio bene, all’ Istituto, come un pisello nel baccello, un insetto nel bozzolo, al caldo, al sicuro insomma. Era ormai sera quando era uscita, e nel buio di dicembre, quando il buio arriva così presto che ti chiedi se mai c’ è stato il giorno, si era diretta alla fermata del 27B. Pieno centro. Folla. Luci elettriche. Automobili. Motorini. Ancora folla. Giovani, vecchi, giovanissimi, mezza età, di tutto un po’.

La vide fra la gente. Veniva avanti con passo abbastanza sicuro e sguardo del tutto smarrito. Una donna alta. Anziana. Capelli grigi, alle orecchie, un po’ scompigliati, come dopo una dormita. Occhi grigi, un po’ fissi. Fronte alta, pelle vizza, Bocca dalle labbra rientranti, niente denti. Un foularino leggero al collo, un cappottaccio addosso. Un paio di Clark’ s sbertucciate ai piedi, una borsa a sacco sulla spalla. Camminava. Verso, pareva, un punto. Poi, come avesse perso contatto con quel punto, si girava, tornava indietro. Si guardava intorno: cercava. Qualcosa. Qualcuno.

Non la vedeva nessuno. Le facevano largo, sì, ma non la vedevano. In tutta quella luce artificiale. Proprio come non ci fosse. E lei continuava il suo andirivieni imperterrita. Non dava l’ idea della miseria, ma di qualcosa di diverso e di più, aveva addosso un’ aria di abbandono che colpiva, faceva dolere l’ animo dentro, in profondità. Faceva venir voglia di andare verso di lei, di salutarla, stringerle la mano, cose così. Solo a poterla  vedere. A un certo momento attraversò la strada. Lei la seguì con gli occhi fin che poté mentre la donna camminava sull’ altro marciapiede, finché la folla non la strinse tanto da inghiottirne la sagoma, sfumarne i contorni. Era sparita.

“Natale. Tsé!” si trovò a dire a mezza voce. Il 27B era in arrivo. Presto sarebbe stata a casa. Senza albero, senza presepe, senza candele rosse. Perché a lei che fosse natale non poteva importare di meno. Avrebbe scaricato la posta e ci avrebbe trovato, inevitabilmente le prime postcard d’ auguri, cui, regolare regolare, non avrebbe risposto. Nei giorni seguenti nessuno al mondo le avrebbe telefonato per chiedere: “Cosa fai per natale?” Ed era meglio così.

Lei, per natale avrebbe messo su un CD di un suo amico compositore, certo Dante, che faceva una musica che lei sentiva particolarmente congeniale e avrebbe scritto qualcosa, magari sul natale, magari su quella donna alta, squadrata, di carne e di ossa a cui avrebbe voluto stringere la mano, l’ unica persona a cui, in tanti anni, si era sentita sul punto di dire: “Buon Natale.” Chissà perché.

Un augurio sincero. Sentito. Vero. E non ne aveva fatto niente. Da quella cretina che era.

Il questionario

settembre 25th, 2009 by admin

Immagine da Flickr

Il vecchio andò direttamente alle caselle postali. Aprì la numero 27. Ne trasse  le buste. Le tenne un secondo fra le mani, quasi soppesandole. Le ripose poi nel sacchetto di plastica che teneva appeso al braccio e si allontanò, uscendo dall’ ufficio postale.
Camminava  trascinando i piedi, come spesso capita a quelli in età avanzata. Colpiva in lui l’ aspetto, un misto fra il trascurato e  il decadente, in contrasto con lo sguardo, guizzante e tagliente, che sconcertava chi, per caso, lo incrociava.  
Camminò a lungo finché raggiunse una costruzione in pietra che aveva visto, in passato, giorni migliori. Adesso si presentava consumata dalle stagioni, mangiata com’ era dalla pioggia e dal gelo, cotta  dal sole. Il vecchio si fermò e fissò la casa. Scosse la testa, impercettibilmente. Salì i tre gradini consumati, fino alla porta d’ ingresso. Cincischiò brevemente nella tasca del cappotto sdrucito, aprì la porta, solo uno spiraglio, e sparì all’ interno. Inghiottito da un buco nero.
All’ interno, su tutto pareva regnare un senso di decomposizione fatto di polvere e muri farinosi. Il vecchio salì la scala che portava al primo piano. Sul piccolo pianerottolo si fermò: c’ erano due porte. Aprì quella alla sua sinistra ed entrò in una stanza che contrastava con il resto della casa, calda, confortevole, quasi elegante, ben illuminata, com’ era, con mobili di legno lucidi, una grande scrivania e una cassettiera. Si guardò in giro, come a controllare che tutto fosse come lo aveva lasciato. Si sfilò il cappotto, si tolse la giacca, e poi la maglia grigia e consumata ai polsi. Aprì un cassetto, ne trasse un lungo abito verde lucido, lo indossò.  Si sedette alla scrivania, posò le buste sul ripiano, ripiegò con cura il sacchetto e lo mise da parte.
Fissò le sei buste con occhi penetranti, mentre intrecciava le lunghe dita sottili  delle mani per poi subito scioglierle, come in una ginnastica istintiva.
Con calma aprì le buste. Ne trasse i questionari e li dispose uno a lato dell’ altro. Incominciò ad esaminarli, controllando per ogni voce le diverse risposte. Non doveva prender nota di niente, registrava ogni cosa in testa, incasellava ogni reazione, ogni minimo spunto, mentalmente, e intanto intrecciava e scioglieva le dita, serpenti che s’ annodavano senza fine.
Era questo il suo compito, sancito nel tempo, era questo il suo dovere, impostogli da un passato stellare  quando si era deciso che, essendo le creature fragili gingilli di carne, sangue e ossa, nulla di più, li si doveva osservare, manipolare, prevaricare persino, per il loro stesso bene, per semplificarne la vita, in una prospettiva che consentisse di determinare, alla fine, attraverso la ricerca, l’ individuo perfetto per l’ omogeneizzazione sociale totale. Perché  questo esattamente era il fine: per mezzo dell’ analisi dei comportamenti condotta con freddezza e spinta all’ estremo limite dell’ intollerabilità, determinare il punto di rottura, individuare le strategie più adatte alla pianificazione di un mondo di tutti uguali, con pulsioni ridotte al minimo, se non azzerate, comunque stratificate in menti che non si interrogassero, che non si ponessero domande. L’ era dei perché? che creano dubbi, che tormentano lo spirito, che indagano i campi più lontani del sapere, doveva finire. Bastavano pochi spiriti eletti, preposti a questo compito, a porsi le domande, a darsi le risposte giuste,  per tutti.
Le dita snodate in movimento continuo sapevano cogliere l’ elemento cruciale delle reazioni di uomini e donne, di qualsiasi età, di qualsiasi estrazione sociale, qualunque fosse la loro posizione, e lui sapeva, sapeva bene che poteva smontarli e rimontarli, romperli e rimetterli insieme, sciocchi, furbi,  onesti, disperati e malandrini, come fossero modellini componibili.
Lui era il maestro della profezia mai scritta, colui che, con pochi altri nel mondo intero, deteneva  il potere che avrebbe realizzato il mondo perfetto dove l’ uomo sarebbe infine stato libero dal pensare e dal soffrire in quanto animale pensante.
Libero. Per tutti i secoli dei secoli.
Si fece buio nella stanza, solo la veste smeraldina rilasciava un leggero lucore. I questionari erano cenere untuosa sul piano della scrivania.
La pelle si tese sugli zigomi del vecchio e pian piano, delicatamente, si sfaldò, una maschera che si screpola e si sfoglia e rivela il niente, sotto. Il vuoto di un’ orbita immensa che crepita e risucchia in vortici costanti luce e aria e tempo.
Tutta la fragilità dell’ io – uomo vi era riposta, veniva masticata e digerita insieme alla molteplicità delle sue storie, del dolore, della gioia, della rabbia, dell’ infamia, dell’ amore.

Un giorno di caldo boia

agosto 3rd, 2009 by admin

Immagine di luigitosolin

L’ angolo dove stava l’ apparecchio tv era all’ ombra. Il resto della stanza era in piena luce. Risultato: un caldo boia.

L’ uomo, in boxer stropicciati, stravaccato su una poltrona di velluto marrone, sudava come se avesse da buttar fuori tutta  l’ acqua del mondo. Guardava la tv e passava da un canale all’ altro, “navigava” per i canali, sparando raffiche di zapping selvaggio. Dalla finestra aperta si riversavano nella stanza luce a fiotti, caldo a ondate e odore di pesce, quest’ ultimo rifluiva dal ristorante ‘Mario, specialità pesce fresco’, al piano terra del palazzo.

L’ uomo allungò una mano e prese una lattina di birra dal tavolino accanto alla poltrona. Ne mandò giù una sorsata. Fissò lo schermo come se avesse alla fine trovato un programma che lo interessasse. Allentò il polso, senza però mollare il telecomando e rimase a guardare una tizia che parlava di ricette: tonno in casseruola.

“ Troia” commentò lui.

Bevve un’ altra sorsata di birra. Agli angoli della bocca si formarono due brevi rivoli biondi.

Suonò il campanello della porta. Lui non mosse un pelo. Hanno suonato? Certo che no.

Perché infatti qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di suonare alla casa della sfiga?

E dunque! Hanno suonato ancora.

Si alzò e incazzato gridò verso la porta: “Chi è?”

“Apri, Amos. Dai…”

E lui aprì, una fessura di un 10 centimetri da cui intravide una gamba abbronzata, una gonnella bianca, un top pure bianco, una spalla abbronzata come la gamba, un mento deciso, l’ angolo di una bocca non più giovane e un occhio azzurro, vecchio come il mondo. Gli bastò.

“ Va’ a fare in … “ urlò e intanto spalancò l’ uscio.

“ Il solito signore” disse lei.

“ Cosa vuoi?”

“Vedere come stai…”

“ Che te frega?”

 “Siamo amici e fra amici…”

“ Amica della troia sei! Ti ha mandata lei?”

“ No, volevo vedere se potevo aiutarti…in un qualche modo…”

“No. T’ ho chiesto d’ aiutarmi, io? Non mi pare. Io sto bene. Benissimo. Solo come sono, finalmente. Diglielo alla troia.”

“Mi fai entrare?”

“Perché?”

“Dovrei prendere due cose…”

“Questo allora! Mi pareva! Si è scordata dell’ altro?”

“Senti, sono solo due o tre cosette…”

“Ma fa’ quel che ti pare! Prendi quel che ti pare! E poi sparisci!”

Sbatté  con forza il battente mandandolo contro il muro dello stretto corridoio che faceva da ingresso.

“ Ma perché tieni tutto spalancato? Entra tutto il caldo così…”

“ Ma perché non ti fai gli affari tuoi? Non ti passa per la testa che a me va bene così?”

“ Ma se lo sanno tutti che odi il caldo! “

“ Adesso no. Son cambiato. Le persone cambiano, non lo sai? Adesso mi sta bene il caldo. Ci sto come un papa a fare la sauna in ‘sta casa che pare ci abbiano rubato ogni cosa e invece è solo che la stronza ha fatto man bassa di tutto e come abbia fatto in una mattina a portarsi via tutto non lo so…l’ hai aiutata tu? Certo che l’ hai aiutata tu. L’ amica del cuore! Quella sempre fra i piedi che ormai ci stava in mezzo anche quando andavamo a letto…Glielo hai consigliato tu di mollare questa bestia di marito e di scappare con quell’ altro gonzo? Tu? “

“Anche se ti dico di no, mica ci credi” fece lei.

“ No che non ci credo. Tutte uguali, voi. Tutte brave e buone e tutte un sorriso finché le cose van per un certo verso. Ma poi, appena il vento tira da un’ altra parte, appena vi stancate, solo musi e lamentele da tirar sberle e poi…”

“ Mica tutte…”

“ Tutte.”

“ Allora prendo due cose. Va bene?”

“ No che non va bene. Non c’ è rimasto più niente qui. Che cosa vuole ancora? La poltrona? La tv? Il materasso? Dico, anche la statuetta del crocefisso s’ è portata via! S’ è scordata un qualche abituccio? Beh,  a quelli che s’ scordata può dire addio, perché son finiti nell’ immondizia. Dritti dritti nell’ immondizia. Guarda, vai a guardare…niente più vestitini per la pupattola in fregola.”

“Va bene, ho capito. Vado in cucina, un attimo.”

“ A far che? Vuole la pentola a pressione? Una casseruola? Non dirmi che s’ è messa a far da cena a quell’ altro! Lei che aprire una scatoletta era proprio il suo massimo. Faceva fatica anche solo a scongelare un pezzo di merluzzo…Vai, vai.”

In cucina regnava un disordine sinistro, perché pareva voluto, cercato con cattiveria, astio e perseveranza. La donna andò al frigo, lo aprì, allungò una mano verso l’ angolo superiore e proprio dal fondo trasse una scatoletta bianca, un vasetto.

“ Cos’ è?” Fece l’ uomo dalla porta

“ Niente. Sì, insomma, niente d’ importante, solo una crema. Per il viso. “

” In frigo?”

“ In frigo.”

“ Hai finito?”

“ Vado.”

“ Brava.”

“ Senti, perché non facciamo due parole? “

“ Io e te? Scherzi, vero?”

“ No, dico sul serio. Due parole. Soltanto. Guarda, facciamo un po’ d’ ordine sul tavolo, sposto questi piatti, butto queste cartacce, mio dio, ma la pattumiera è piena, fa lo stesso, ci stanno, beviamo una birra insieme, vuoi? E facciamo due parole. “

L’ uomo la guardava trafficare per la cucina, fare un po’ di largo, passare un pezzo di scottex inumidito sul piano del tavolo, prendere due bicchieri, era un  miracolo che ce ne fossero rimasti due puliti, prendere una lattina di birra dal frigo, clic, aprirla, versarla nei bicchieri.

“ Ci sediamo?” chiese lei

Lui sedette. Lei pure dall’ altro lato del tavolo, di faccia a lui.

Fu in quel momento che lui incominciò a sentirsi strano. La guardava e la odiava, vecchiaccia che di diventar vecchia non ne voleva sapere e faceva jogging, andava in palestra, si vestiva come se fosse ancora una giovine di primo pelo e invece quanti anni aveva, quaranta? Certo una quarantina: n’ era passata d’ acqua sotto i ponti da quando era stata di primo pelo, quanta ne era passata!

“Se le guardi gli occhi, le dai anche più anni” pensò. Chissà perché, si chiese.

Comunque la odiava. Era lei che aveva messo in testa a quell’ altra tutte quelle storie, che l’ aveva convinta che una donna deve essere, che cosa? Una che si fa rispettare, che fa i comodi suoi, la libertà è sacra, anche se è sposata, non cambia niente, le donne devono realizzarsi, hanno diritti e diritti, il marito è un ostacolo, se brontola perché si sente messo in disparte, peggio per lui, se non fa il complimentoso è uno zotico che non ti merita, se poi gli affari vanno male e c’ è da stringere la cinghia, allora è solo un sozzo tirchio che non merita un briciolo di considerazione. Lei. Era stata lei. Fino all’ ultimo atto: quando in vacanza le aveva presentato quel bel tomo tutto denti bianchi rifatti, con tanto di catena d’ oro che pareva uno di quelli che ti consigliano i vini nei ristoranti come si vede in tv e lei c’ era cascata.

“ Non sono stata io. “ disse la donna “Capisci, non sono stata io. “

Lui bevve un sorso di birra. Sentiva il sudore farsi freddo sulla pelle nuda.

Pensò “Sono in mutande. “

“ Non sono stata io, anche se non vuoi crederci. Eravamo, siamo amiche. Ma io non l’ ho spinta. Le ho detto: pensaci. Le ho detto: ma lo sai bene quel che fai? Ma era tardi, Amos. Era tardi. Si sentiva stanca della vita che faceva.

Era stanca di tutto. Voleva cambiare. Forse, se aveste avuto dei figli, sarebbe stato diverso. Ma così, voi due che appena uno apriva bocca, l’ altro gliela chiudeva…Era solo stanca. Capita.”

Lui taceva. Non pensava neanche.

“ Mi dispiace.” Continuò lei ”Per lei che non so che fine farà, per te, che, anche se mi hai sempre trattato come una disgraziata e forse lo sono, sei una brava persona, come avrei voluto incontrare quando era il momento giusto, mai che mi sia capitato: pareva che attirassi solo i disperati, fregnoni, sfruttatori, gente così insomma. L’ ho sempre invidiata perché aveva trovato te, sai?”

 Lui la guardò. Stranito. Una cosa come un groppo gli stava dentro che manco riusciva a capire.

“ Ma va’ là…” fece

“ Davvero. Vorrei che tu non dessi la colpa a me. Vorrei che ti tenessi su, non lasciarti andare a ‘sta maniera, non ne vale la pena…Può ancora tornare. Anzi, vedrai che torna.” Disse decisa.

“ E ti credi che io la riprendo? Sono un tipo fatto a quel modo, per te? Io non riprendo nessuno. Se ne è andata. Un fallito, ha detto che sono. Uno stupido, ha detto. Bene. “

La donna si alzò dalla sedia, prese il bicchiere e lo sciacquò sotto il rubinetto, lo ripose capovolto sul piano del secchiaio.

“ Vado. “ disse e s’ avviò alla porta.

“ Luisa.” Chiamò lui

“ Che c’ è?”

“ Ti sei dimenticata quella… crema.”

“ Già. “

Prese il vasetto.

“ Ciao” fece

“ Ciao” fece lui.

La sentì uscire dalla cucina e camminare nel corridoio che faceva da ingresso. Ascoltò il rumore dei suoi passi che si avvicinavano alla porta.

Lei aveva la mano sulla maniglia e stava per aprire, quando lui la prese per le spalle e la fece girare su se stessa.

“ Fammi vedere i tuoi occhi. “ disse

Guardò due iridi chiare, immerse in una rete di rughe sottili e dentro qualcosa cedette sciogliendosi come un blocco di ghiaccio che il sole d’ agosto fa squagliare. Si chinò su di lei e cercò la bocca non più giovane, la trovò, la baciò, lasciandosi andare ad una corrente di rimpianti, di delusioni, di smarrimento sconforto conforto che non voleva capire. Tanto ci sarebbero voluti secoli per capirci qualcosa.

“Luisa.” disse

“Amos.”  disse lei.

Le loro voci erano basse, i nomi appena sussurrati, la stanza era rovente. Alla tv passavano immagini di pubblicità, Venite in vacanza a….Volate con…, cose così.

La colpa

giugno 14th, 2009 by admin

Fotografia di Imogen Cunningham

Stava aspettando che tornasse a casa, era in ritardo. Eppure sapeva bene che quella sera dovevano venire da loro  i soliti amici, una cena alla buona e tante chiacchiere, niente di particolare, ma insomma  avrebbe dovuto avere almeno la cortesia di farsi trovare a casa a un’ ora decente, di preparare qualcosa da mangiare, anche solo un’ insalata, di mettere in ordine.

Invece niente. La casa era un disastro, se possibile peggio del solito. I giornali di tutta la settimana erano sparpagliati davanti al divano. C’ erano le sue calze, il suo pigiama verde scuro – mai che indossasse qualcosa di chiaro, sempre colori scuri e ringraziare se ogni tanto sgusciava fuori dal nero -, i pettini, la spazzola e il phon erano abbandonati in bagno, spersi fra la vasca e lo sgabello giacevano l’ accappatoio e gli asciugamani.

Meccanicamente li raccolse, li buttò, appallottolati, nel cesto della biancheria sporca. Si faceva tardi. Pensò, adesso telefono. Se almeno avesse tenuto il cellulare acceso. Macchè. Spento. Morto. Che cosa se l’ era comprato a fare?

Inutile cercare di star calmo, proprio non ci riusciva. All’ irritazione era subentrata la rabbia. Non ne poteva più. Ormai era troppo tempo che la situazione stava andando a picco. E loro due lo sentivano. Lo sapevano, ma non ne facevano parola. Andavano avanti come se tutto fosse normale. Si alzavano la mattina, bevevano un caffé insieme, in piedi, in cucina.

Vado, diceva lui

Ciao, diceva lei

Avevano perso l’ abitudine di scambiarsi un bacio breve e ancora assonnato da molto molto tempo, ma nessuno dei due ne aveva fatto una tragedia.

Si ritrovavano la sera.

Ciao, diceva lui

Ciao, diceva lei

E accendevano la televisione per il telegiornale che condiva le loro cene precotte, a volte uscivano, avevano amici, andavano a un cinema, in pizzeria o, se potevano permetterselo, in trattoria sulla collina, buon vino e tagliatelle fatte in casa.

Lei voleva un figlio, ma sapevano, tutti e due, che non se lo potevano permettere, per il momento. Più avanti forse, quando avessero potuto trasferirsi in un appartamento più grande, quando avessero finito con le rate della macchina –l’ aveva voluta lui, bella, grande, comoda, costosa, e che neanche uno sfizio mi posso togliere? -, con le rate della lavatrice-asciugatrice, del frigo congelatore maxi, quello che ti dà l’ acqua fredda direttamente – li aveva voluti lei, – insomma servono, con me fuori di casa tutto il giorno -, sì, insomma le rate per tutto quello che avevano creduto necessario a tener ben nascosto la distanza che si stava scavando fra di loro,

ogni giorno la fenditura si allargava, era diventata una crepa dagli orli frastagliati, era ormai fuor da ogni controllo,

e la terra aveva cominciato a tremare sotto i loro piedi che andavano in direzioni parallele e mai si incrociavano,

a tremare forte mentre lampi arancione aprivano le nuvole e loro niente, immobili come lampioni piantati nel cemento di una strada trafficata senza semafori che dessero il via,

come paletti conficcati fitti intorno a un campo fiorito per precludere l’ ingresso a tutti e a loro due in particolare.

Si rese conto che era buio. Tirò un pugno all’ aria. Aprì il frigo ultramoderno e dentro trovò la desolazione del solito tonno, di due uova – scadenza ignota – yogurt scadenza ok -, non ha preso niente per stasera, pensò. E ancora, adesso chiamo Anna e Fede e dico loro di non venire, che non sto bene. Proprio mentre allungava la mano per prendere il telefono senza fili, sì, l’ aveva comprato lui, per il design così particolare, il telefono suonò. Era un uomo, voce mai sentita. Poche parole: la prima, incidente, un’ altra, grave, una terza, ospedale. E’ meglio se viene subito. Fine della comunicazione.

Spense il telefono meccanicamente. Si guardò intorno, meccanicamente. Ho trentotto anni, pensò. Lei ne ha trentacinque. Possiamo ancora avere un figlio.

E pregò, Dio, fa che si salvi. E ripeté: Dio, fa’ che si salvi.

Mentre saliva sull’ auto dotata di tutti gli optional che il modello consentiva, mentre metteva in moto e ingranava la marcia, aveva in mente solo il tempo sprecato, tutto ciò che loro due non avevano condiviso, l’ allontanarsi nel silenzio di una colpa che non era loro, che non sentivano loro, ma che li aveva messi al muro. Perché non esistono sostituti possibili all’ amore. 

Decisamente. Definitivamente.

Incrociò la macchina degli amici al semaforo. Fede richiamò la sua attenzione sluminando. Lui non vide niente. Niente.