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L’ acqua é insegnata dalla sete: Buon Natale

dicembre 25th, 2012 by admin

Water, is taught by thirst.

Land — by the Oceans passed.

Transport — by throe –

Peace — by its battles told –

Love, by Memorial Mold –

Birds, by the Snow.

 

Emily Dickinson

 

L’acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani attraversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L’amore da un’impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve.

cada la neve

dicembre 24th, 2012 by admin

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Da http://it.123rf.com

e questa gloria di neve che candida-mente
cade
e tutto riveste in fiori luminosi
in bianco veste le ramaglie aperte al cielo
tutto ricama in trine di cristallo,
possa essere coltre calda al mondo
a pezzi
ai ricordi         ai tesori del cuore
che li avvolga e li stringa abbracciandoli come figli
amori
 ormai lontani       mai perduti
si faccia sipario al cielo nascondendo l’ orrore      il terrore     il dolore
velando l’ intrico malsano dell’ aria     del tradimento     della paura
a noi che qui giochiamo l’ ultima partita e gettando le carte
sul tavolo picchiamo il pugno per rabbia e solitudine
a noi resti il profumo della neve negli occhi    in sentore di primavera
e cada la neve sulle palme di Betlemme
segno di meraviglia
poichè
meravigliosa cosa é l’ amore
meraviglia delle meraviglie da cui
 tutto discende e s’ incunea nelle pieghe
dell’ esser uomini sulla terra degli uomini
in nome di una luce memoria che s’ offusca
 in tempi nuovi e malati
in spasmodici insulti al primo vagito
incontrollati rigurgiti di fiele in fiale dorate
ma nulla più conta
nulla conta se non la mano paffuta di un bimbo
 che docile allora posò
e oggi di nuovo posa lo sguardo sul mondo
su tutte le sue creature
e  sorride
 tutto comprendendo e tutto abbracciando.
Cada la neve su ogni capanna,
sulle anime senza voce     sulle colpe di
Quanti vanno pellegrinando per una terra stranita
ormai estranea alla memoria

cada la neve fragrante    luminosa    purissima
al caldo tenga i semi per  la primavera a venire.

l’ importanza delle minime cose

aprile 9th, 2012 by admin

Ne sentiva il respiro, così quieto. Solo a tratti si sfaceva in un sospiro affannato.

C’ è tempo, si disse. C’ è ancora tempo.
Ma sapeva che, a breve, l’ alba sarebbe filtrata attraverso le fessure degli scuri. Presto.
Aveva timore di ogni nuova alba. Di ogni nuovo giorno, perché sapeva che, alla fine, un giorno sarebbe sorto a toglierle una parte di lei. A lasciarla monca. E sentiva che il tempo si accorciava, come una corda sfilacciata fino al punto di rottura.
Raddrizzò le spalle. Lei era sempre stata una donna forte. Capace di far fronte alla vita. Alla fatica. Alla miseria. Alle infinite responsabilità. Lei.
Che venga, dunque, si disse dentro, quel giorno! che venga e mi lasci dimezzata. Io non cadrò a pezzi. Io gratterei la terra con le unghie e mangerei l’ erba del campo dietro casa e spezzerei la schiena a scavar radici, pur di evitarlo. Ma non servirebbe, a niente.
E allora lasciatemi riprendere e riporre al caldo, qui, nel palmo della mano, i miei tanti anni indietro e i miei ricordi, tesori di speranza e lavoro, di gioie e dolori: che altro è mai vivere, se non questa altalena costante?

Se lo disse in un sussurro, una donna forte e testarda, avvezza alla lotta.

Vagò indietro, socchiudendo gli occhi stanchissimi e duramente si impose il viaggio.
Gli anni passati lontani dal paese, emigranti, lui e lei, per un lavoro che permettesse loro di fare un po’ di soldi, il piccolo tesoro necessario a costruire la casa sul terreno dei loro vecchi. Una casa per tutti loro, che tutti li accogliesse. Anni felici, anni duri, e già arrivavano i figli, una piccola, poi un’ altra. C’ erano i rientri veloci al paese, dai genitori che ogni volta si facevano più anziani. Poi vennero i primi soldi da mandare a casa, perché si incominciasse a costruire e poi ci fu lui che scavava le fondamenta, e incominciava a tirar su i muri.
C’ era voluto tempo e una lunga lontananza, ma alla fine la casa fu terminata e loro ritornarono al paese, dove d’ inverno scendeva gelida l’ aria dalle montagne tutto intorno e il freddo si condensava sui vetri delle finestre nuove e lasciava ricami di brina.
Ma lei teneva accesa la fornella e scaldava i muri ancora umidi di pittura e cucinava e lavava e stirava e partoriva un altro figlio. Mentre lui lavorava alla fonderia fuori dal paese da mattina a sera.

Si scosse e si alzò dalla poltrona su cui aveva vegliato, la notte, e andò in cucina.
La fornella, si disse. Devo accenderla. Subito, prima che la casa diventi troppo fredda. Armeggiò con la legna e presto la fiamma brillò.
Conosceva così bene la casa, la disposizione di ogni mobile, di ogni singolo oggetto, che riusciva a muoversi al buio senza il minimo rumore, senza paura di inciampare o di far cadere a terra alcunché.

Presto farà caldo, si disse e tornò in camera si sedette di nuovo e riprese la loro storia fra le mani, sgranandola come grani di un rosario.
Le venivano alla mente cose da nulla, piccole faccende, gesti senza importanza e parole piene nella loro brevità. Non c’ era stato mai un qualche evento straordinario, si rese conto, qualcosa di travolgente e meraviglioso. Solo una vita comune. Eppure capì, lo capì di colpo, che ogni piccolo gesto, ogni scampolo di parola, ogni minima cosa, sommandosi gli uni alle altre, avevano formato, nel tempo, un miracolo. Che altro era stato il loro vivere insieme?
La volta che lui le aveva stretto la mano forte. Ce la facciamo. Fidati.
La volta che si erano guardati, senza parole e senza parole era entrati, fianco a fianco, nella casa appena finita.
La volta che la piccola aveva cominciato a camminare e andava incontro a lui che rientrava dal lavoro.
La volta che lui le disse: Tua madre non può star più da sola. Falla venire qui. Ci penso io, a lei.
Le infinite volte che…, tante da averne perso il conto. Frammenti che tutti si riaffacciavano in quell’ ora di fine notte, e bussavano, forte, alla porta, per essere accolti.

Perché? domandò. Se lo era chiesto spesso negli ultimi tempi. Perché? Mio Dio, c’ è tanta gente malvagia in giro, gente che ruba e ammazza, perché non ti sei preso uno di loro, invece di lasciarli vivere fino a diventare vecchi, perché?
Non riusciva a capire e sapeva che non lo avrebbe capito mai. Avrebbe accettato, questo sì, ma capito, no.

Lui si mosse appena.
Nora.
Sono qui.
Gli sfiorò il polso, pose la sua mano sulla mano di lui. Una mano grande. Buona.

Rimase ferma. Poi fu l’ alba, rosata. Entrò in punta di piedi nella stanza lasciando ditate delicate sul pavimento.
Nora sentì la mano di lui distendersi un attimo e un fremito di sangue le corse il ventre.
La mano ebbe un brivido. Breve. Niente altro.
Nel silenzio le sue dita si muovevano, accarezzando la mano di lui, percorrendo ogni dito dall’ attaccatura all’ unghia, uno alla volta. Così. A lungo. Finché non sentì esploderle dentro, nel petto, un ansito enorme che gridava e il senso dell’ amore, dell’ amore per lui, quasi la travolse, accecandola, togliendole il respiro. Fino a star male.
Ponendo il sigillo a ciò che era stato, perché niente andasse perduto.

Poi lentamente il mondo smise di girarle intorno, ogni cosa ritrovò il suo posto e lei rimise i piedi a terra, frastornata.

Quante cose dovrei fare, adesso! pensò.
Dovrei telefonare, si disse. Ai figli, certo. A chi, poi? ai parenti, agli amici, anche a quelli che, di fronte alle difficoltà, alla malattia, gli avevano girato le spalle? che si erano disinteressati di lui?
Anche a loro. Ma non adesso. Non me la sento. Perché quando avrò fatto il primo numero, ecco, allora tutto questo sarà vero. Un fatto concreto. Adesso è ancora solo un’ ipotesi di dolore, che posso gestire come una nuova intimità.

Perciò, no, non adesso. Siamo partiti insieme, io e lui. La chiudiamo insieme, io e lui, da soli, questa porta.

Così rimase lì, a contarsi e a contargli i perché e i per come dei giorni, finché non sentì aprirsi la porta d’ ingresso e la voce del figlio chiamare, sottovoce: Ma’? dove sei?
Solo allora si alzò. Dritta sulla schiena, andò in cucina, il figlio era davanti alla fornella rovente, le mani tese verso il calore.
E il giorno entrava a fiotti dalle finestre, era la luce opaca della fine inverno che già germogliava di semi e profumi di una primavera che lei avrebbe percorso pian piano, portandosi appresso ogni sua minima cosa, mantenendola fragrante come pane appena sfornato. Per tutto il tempo che ancora restava.

Dedicato a V., un uomo buono

9 Febbraio 2010

Non qui

maggio 26th, 2010 by admin

Ofelia, Waterhouse
Ophelia, J. W. Waterhouse

Aveva un lavoro da schifo, nel vero senso della parola. Un lavoro pagato male, di più, malissimo. Un lavoro che lo teneva inchiodato ad una scrivania troppe ore al giorno, a fare cose che non gli interessavano né gli piacevano, un lavoro che era all’ origine della sua ulcera e della sua insoddisfazione. O forse era l’ insoddisfazione all’ origine dell’ ulcera? Poteva essere. Non era importante. Non più. Perché adesso non gli fregava più di tanto. Adesso aveva capito che ribellarsi e sperare in un cambiamento era inutile, si nasce con un destino, no? Segnati. C’ è chi è fortunato e chi no. E che non gli venissero a parlare del “sei tu che ti fai il tuo destino”. No. Lui ci aveva provato e ci aveva anche creduto, da quel povero fesso che era, che ce l’ avrebbe fatta a sganciarsi da tutto quel ciarpame. Ce l’ aveva messa tutta e aveva fatto del suo meglio per riuscirci. Si era arenato quando si era reso conto che senza raccomandazioni, amicizie di peso, senza leccare il culo a chi di dovere, la sua buona volontà non serviva a un cazzo. L’ aveva capito con il tempo, guardando gli altri, i compagni della giovinezza che si facevano strada, si compravano la villetta, l’ auto coupé, mettevano su famiglia con belle figliole. Lui era lì invece, fermo al punto di partenza, un illuso, uno sfigato che aveva creduto che dar prova di volontà, di capacità, essere affidabile, disponibile, attivo, onesto, sarebbe bastato. Invece niente. Aveva incominciato in quel magazzino, schedando le bolle di consegna. Facendo conti e controlli. In un ufficio senza finestra, con un tubo al neon che spandeva la sua luce bianca sugli schedari di metallo, la scrivania di finto legno, le carte che si ostinava a tenere in ordine. Ci era invecchiato in quell’ ufficio. Sette ore al giorno, ogni giorno. Aveva perso di vista gli amici. Si era rifiutato di prendere in considerazione l’ idea di farsi una compagna, che cosa poteva offrirle? Una vita tirata. L’ attrazione e l’ amore, lo sapeva, perché l’ aveva visto accadere, finiscono nella noia, nel disinteresse, peggio ancora, nelle liti quando manca un benessere decoroso e ci si deve preoccupare per il domani, si deve risparmiare sulla luce, sulle vacanze, sui vestiti. No, non era giusto. Lui si faceva bastare lo stipendio, con gli anni aveva perso le voglie della giovinezza, aveva imparato ad accontentarsi. Si faceva bastare l’  abito grigio invernale, il completo nocciola estivo, si accontentava della bicicletta, di un appartamento di due stanze in affitto in un casermone di periferia. Attraverso i muri sottili sentiva le voci dei coinquilini, quelli di fronte, di fianco, di sotto. Gridavano tutti, sempre incazzati. I bambini piangevano. Le donne strillavano. Spesso oggetti cadevano e si rompevano a terra. Gli uomini sbattevano le porte e andavano al bar. Eppure c’ era stato un tempo in cui la vita gli aveva spalancato le braccia e qualcuno gli aveva fatto credere che tutto per lui sarebbe stato possibile. Si chiamava Cecilia. Lui ne era innamorato. Lei l’ aveva mollato per un altro. Amen. A quel tempo aveva appena incominciato a lavorare nel magazzino. Il primo passo verso il futuro.
“Permesso?”
Alzò la testa dai fogli.
” Posso? Gli uomini, sì, gli operai fuori mi hanno detto di chiedere in quest’ ufficio… “
E allora?
” Sì, è per l’ annuncio… c’ era sul giornale di ieri. C’ è ancora il posto? C’ è ancora? “
Si ricordò che la direzione stava cercando una persona che sapesse usare bene il computer.
Scosse il capo. Noncurante.
” Non c’ è più? Avete già trovato? ” Era giovane, carina, ansiosa.
” Non lo so.” Si decise a dire.
” Deve andare al piano di sopra. Non qui. ” aggiunse quasi di malavoglia.
” Ah, ecco. Quelli fuori m’ avevano detto…”
” No. Non qui. Vada di sopra. Le diranno tutto. Di sopra. ” un filo spazientito.
” Grazie. Mi scusi. L’ ho disturbata. Mi scusi. E’ il mio primo lavoro, sa. E’ importante. Credo d’ essere un po’ agitata. “
” Capisco. “, poi, solo per essere gentile, disse: “Vedrà che andrà bene. “
” Lei dice? Spero di sì. Proprio tanto. Sono uscita dalla scuola da pochi mesi e ho cercato subito d’ impiegarmi, ma non è facile. Per niente facile. E io voglio lavorare. Ne ho bisogno. Come tutti, vero? ” sorrise.
” Già. ” disse lui. Parlava tanto quella ragazza. Forse perché era agitata. Forse era una chiacchierona. Prese su un foglio e chinò lo sguardo a leggerlo, così tanto per farle capire che aveva da fare. Per farla andar via.
” Lei qui che mansione ha? “
Mansione? Ma che accidenti voleva?
” Spedizioni.” grugnì.
” Che computer adopera? “
Chettefrega?
” Pentium… “
” E’ un modello vecchio, troppo vecchio.” Aveva fatto il giro della scrivania e s’ era piazzata alle sue spalle. Lui odiava  la gente alle spalle.
” Senta, signorina… “
” Maria, mi chiamo Maria. Sì, davvero è un modello superato. “
Basta.
” Per quello che devo farci va bene. “
” No davvero. Non credo.  Che programma di posta adopera?”
” Non pensa che farà tardi per presentarsi per il posto? “
” Certo! Stupida che sono! Vado via, è solo che io lavoro sui pc e… va bene, scusi ancora, spero di rivederla. ” sorrise.
Era uscita. Signore, ti ringrazio. Questi giovani non hanno il senso della misura. Quella poi sorrideva troppo, per i suoi gusti.
Si rimise a trafficare. Come sempre, a mezzogiorno scaricò la posta. La direzione inoltrava gli ordini effettuati affinché li schedasse. C’ erano i messaggi di alcuni rappresentanti che citavano i reclami dei clienti per un ritardo nelle spedizioni. E allora? Che si lamentassero con chi di dovere. Lui la sua parte l’ aveva fatta. Che lo scassavano a fare? Li cancellò. Quasi stava per cancellare anche un messaggio  che aveva per oggetto Direzione. Si bloccò un attimo prima di premere il delete. Che cosa volevano?
L’ aprì: ” Salve, mi hanno assunta! Incomincio domani! Ma adesso sono in ufficio: ho chiesto di rimanerci un po’, oggi,  per prendere su l’ aria, come si dice. Volevo salutarla, ringraziarla perché è stato gentile con me e dirle che sono contenta. Ci vediamo presto. Maria”
L’ avevano assunta e lei era contenta. Va bene.
La mattina dopo arrivò in ufficio come al solito, puntuale, ma neppure un secondo prima dell’ orario. Accese la luce, andò alla scrivania, si sedette.
” Buon giorno! ” era sulla soglia, il viso solo un po’ arrossato. Sorrideva.
” Buongiorno.” Rispose. Educato.
” Vado di sopra. Buon lavoro!”
” Buon… ” era già sparita. E lui non aveva fatto in tempo a completare la frase.
Ogni mattina, prima di salire in direzione, Maria passava a augurargli il buon giorno. Alla chiusura passava a dirgli: “A domani!” voce squillante.
Lui pensava che era gentile, ma non capiva perché mai si prendesse quel disturbo.
Poi, lei incominciò a scrivergli messaggi nei momenti liberi. Brevi messaggi, solo poche parole, tipo “Salve, come va?”, cose così insomma. Lui, per educazione, le rispondeva.
Con il passare del tempoi Maria incominciò a scrivere messaggi più lunghi, più chiacchierini. Prima sui colleghi nell’ ufficio, cosine da far sorridere chi ne avesse avuto voglia, poi un po’ più personali. Lui pensò che si sentiva sola oppure semplicemente che era incapace  di star zitta. Imparò comunque che viveva con la madre. Che la madre l’ aveva fatta studiare facendo un bel po’ di sacrifici e che adesso lei si sentiva in debito e voleva aiutarla. Per questo aveva tanto urgenza di mettersi a lavorare.
Schivava tutte le sue domande, come ” che mi racconti di te? “, ” che cosa hai fatto ieri sera?” Non ne voleva di ingerenze nella sua vita quotidiana. Che cosa poi potesse importare a Maria di quello che lui aveva fatto la sera prima, era un mistero. In ogni caso non erano affari suoi. Magari lo chiedeva per semplice curiosità. Ingenua, ma indisponente, curiosità. Così lasciava cadere le domande nel vuoto virtuale, facendo finta di niente. D’ altra parte le sue risposte erano sempre brevi, distaccate. All’ inizio voleva tenerla a distanza. Poi, con il passare del tempo, i messaggi diventarono una consuetudine e si trovò a scaricare la posta con una cera ansia, sperando di trovarci qualcosa di Maria. Generalmente c’ era. Si accorse che rimaneva deluso, quando non ne trovava e la cosa lo preoccupò un tantino. Lui di delusioni ne aveva già avuto la sua parte. Non voleva correre rischi.
Una sera Maria passò a salutarlo come al solito. Era contenta. Sorridente come sempre. Fiduciosa. In sé, nel futuro, nelle cose importanti della vita. Si salutarono. Lui spense la luce, uscì. Maria si allontanava lungo la strada stretta ad un tipo alto, jeans e giubbotto. ” Ecco. Così.” pensò lui.
Fece il giro lungo per tornare a casa. Per prendere un po’ d’ aria. Per pensare ai giovani e ai loro amori. Aveva creduto che non avrebbe mai rimpianto la giovinezza con tutti i suoi sogni, le sue illusioni. Invece quella sera la rimpianse.
Il giorno dopo era sabato. Il lavoro sarebbe ripreso solo lunedì. Ebbe due giorni per fare i suoi lavori in casa, riordinare e pulire. Aveva imparato da tanto di quel tempo a far le faccende che ormai gli veniva naturale e spontaneo. Fece il bucato, rammendò i calzini. Fece una passeggiata. Al telegiornale delle otto, la domenica sera, imparò che Maria era morta. L’ avevano trovata strangolata in un viottolo dietro il parco delle Radici. “… la polizia indaga.”
Ecco. Così. Indagano.  Era strano. Non provava rabbia.  Era quella l’ ultima delusione? L’ ultimo tradimento della vita? Era vissuto fino ad allora per quello? E Maria, per che cosa era vissuta? Per arrivare a quella morte? Così giovane, così tutto. Dire che era ingiusto non bastava. Non serviva. Spense il televisore. Le voci gli davano fastidio. Si sedette su una sedia, mise il gomito sul tavolo e appoggiò la fronte alla mano. Chiuse gli occhi. Voleva silenzio.
Il lunedì, venne la polizia a far domande lì dove Maria aveva lavorato.  Andarono in direzione. Lui entrò nel suo ufficio. Accese il computer e scaricò la posta. Provava la solita sensazione di attesa. Nonostante tutto. Era il suo rituale. Lo compì come facesse un pellegrinaggio.
Ma il messaggio c’ era. E parlava di un giovane conosciuto da poco e che si chiamava così e così e aveva tot anni e lavorava dalla tal ditta, e abitava…, sì c’ era anche la via… e c’ era che quel sabato aveva un appuntamento con lui e così non sarebbe tornata a casa dopo il lavoro, ma sarebbe andata al cinema con lui e …” sai, mi piace, ride che è una meraviglia e potrei anche innamorarmi, vedremo. Tu che dici? Adesso vado via, ma volevo raccontarti tutto prima di uscire… sono così felice…”
Bene. Ecco. Così vanno le cose. Sentì la polizia scendere e poi qualcuno aprì la porta:
” Qualche domanda, per favore. Conosceva …. “
 
Sì. La conoscevo. Era giovane, carina, fiduciosa e ci credeva, nel futuro. Che sarebbe stato bello. Magari non perfetto, ma bello. Ecco, vedete, ci scrivevamo via e mail. Così.

Censura

ottobre 11th, 2009 by admin

Shahriar Mandanipour, Censura

In una Teheran misteriosa e caotica, dove il profumo dei fiori di primave­ra si mescola al puzzo di monossido di carbonio e le motociclette diventano taxi improvvisati in un traffico da delirio, una ragazza che manifesta davanti all’ università sta per diventare l’eroina di una storia più grande di lei. «La ragazza non sa che esattamente sette minuti e set­te secondi dopo, al culmine degli scontri tra polizia, studenti e militanti nel Partito di Dio, sarà travolta nel caos delle cariche e delle fughe, cadrà all’indietro, batterà la testa su uno spigolo di cemento e chiuderà i suoi occhi orientali per sempre».

Raramente un’opera letteraria ha anticipato con maggiore puntualità una tragedia co­me la morte di Neda Agha-Soltan, la ragazza iraniana uccisa negli scontri tra studenti e polizia lo scorso giugno, la cui morte ripresa in video è diventata l’anima delle proteste durante l’ultimo contestatissimo trionfo elettorale di Ahmadinejad. Ma di puntualità davvero si tratta, se si pensa a Censura. Una storia d’amore iraniana, il romanzo di Shahriar Mandanipour che Rizzoli ha appena mandato in libreria nella traduzione di Flavio Santi (pp. 370, e 19,50), è uscito negli Stati Uniti proprio du­rante le passate elezioni in Iran. Ed è diventato immediatamente un «caso» sui giornali e nei circoli letterari americani per molti buoni motivi, a cominciare al suo inizio tristemente profetico. Gli altri motivi sono legati al metodo postmoder­no usato dall’autore per interrogarsi sui limiti e le possibilità dello storytelling in uno Stato totalitario. Su cosa significhi cioè «narrare» in un Paese dove l’immagi­nazione può condurre alla galera; dove il linguaggio deve farsi ipercreativo per aggi­rare divieti culturali durissimi; e dove il semplice dare forma a una storia d’amore tra un ragazzo (Dara) e una ragazza (Sara) diventa una sfida, sullo sfondo di un Pae­se dove due giovani non sposati non pos­sono né incontrarsi né tenersi per mano né guardarsi negli occhi in pubblico. Ma per capire meglio dove nasce l’inte­resse per un libro complesso come Censura , bisogna andare a pagina 16, dove Shahriar Mandanipour — o il suo alter ego letterario — si presenta al lettore dicendo:

«Sono uno scrittore iraniano stan­co di scrivere storie cupe e amare, popola­te da fantasmi e narratori passati da tem­po a miglior vita, con prevedibili finali di morte e distruzione»

Uno scrittore cinquantenne, aggiungiamo noi, che scrive in farsi per un pubblico che non può leg­gerlo (essendo in Iran censurato) e pensa in inglese per un pubblico americano col­to; che è stato critico cinematografico, direttore di una rivista letteraria e autore di racconti, prima di emigrare negli Stati Uni­ti nel 2006, dove Harvard gli ha offerto un posto di writer in residence che occupa tuttora. Pieno di energia, ironico, erudito e ambiziosissimo, Mandanipour ha scritto un romanzo che è tre cose in una: la storia di un amore segreto tra due giovani nella cupa Teheran di oggi; la storia dello scrittore di quella storia costretto, per poterla raccontare, ad aggirare con mille compromessi l’inevitabile censura; e una riflessione su il modo in cui arte e vita possono mescolarsi nella realtà e sulla pagina….
…. è la censura la vera protagonista di questo romanzo. Una censura eleva­bile ad arte che è la vera ragione, secondo Mandanipour, per cui «gli scrittori iraniani sono diventati i più educati, i più maleducati, i più romantici, i più pornografici, i più politici, i più realisti e i più postmoderni del mondo». Non grazie alla nostra cara vecchia libertà di espressione che può intimorire le menti più navigate. Ma grazie a una tirannia che nella sua stupidi­tà non si accorge di essersi trasformata nella madre di tutte le metafore.

Livia Manera

da: http://www.corriere.it/cultura/

La tempesta verrà

marzo 25th, 2009 by admin

Immagine di _Massimo_

la tempesta verrà e
ti investirà,
in mare di foglie ti
sommergerà,
rami divelti ti batteranno
gli occhi e tu
vedrai in viso il dolore
 
ti ripiegherai su di te, accartocciato
ti farai segno di terra
costola primordiale lungo
il percorso sconvolto,
 
sentirai urlare il vento e l’ acqua
scrosciare
saprai dell’ alfa e dell’ omega,
di come grida l’ amore.

Natura

marzo 18th, 2009 by admin

 

Immagine di JT in a new era

Una poesia di Mario Luzi

La terra e a lei concorde il mare 
e sopra ovunque un mare più giocondo 
per la veloce fiamma dei passeri 
e la via 
della riposante luna e del sonno 
dei dolci corpi socchiusi alla vita 
e alla morte su un campo; 
e per quelle voci che scendono 
sfuggendo a misteriose porte e balzano 
sopra noi come uccelli folli di tornare 
sopra le isole originali cantando: 
qui si prepara 
un giaciglio di porpora e un canto che culla 
per chi non ha potuto dormire 
sì dura era la pietra, 
sì acuminato l’amore.

Il filo rosso

marzo 5th, 2009 by admin

Immagine di NaNa

il filo rosso
stretto        da collo a collo
 
il laccio di seta rossa
 
il nastro che lega capo a capo
mano a mano
come il filo di sangue   dal foro nel lobo
dal colmo della gola senza corde
percorre sinuoso il braccio, la mano, le dita
fino all’ unghia percorre e lì
indugia feroce in attesa
 
il limpido cuore a svuotare
a colmare
il fiore dell’ amore
 
sbircia la passione dal velo
e trema all’ oscuro trasalire   in ogni movimento
in ogni spazio, in ogni respiro
tesa, la notte, a fluttuare
sospese particelle
ogni alito caldo rappreso infine
nel freddo calcolato giornaliero flusso
quando i conti sterili e necessari
si pongono di qua dalla siepe e incalzano d’ urgenze simboliche
 
il sale e il pesce
e l’ olio e l’ aceto
il pane ancora da spezzare
disagio della mente
 
e il conto è salato
non torna la somma dei giorni
smarriti la corsa e l’ ansito
il desiderio nascosto nel pozzo infinito dove finiscono le cose maltrattate
ingannate
deluse
 
farsi amo – re lucente, amo lanciato a ripescare dal fondo il  dono
ricolmo di sé, frantumati ritagli di tempo sprecato
 
devo comprare la colla
quella che tiene per sempre
e poi scheggia a scheggia rimettere insieme i pezzi
e scavare scavare nell’ arido fondo
quel che palpita
ancora.
 
Amore in cerca di sé.

Tramonto

febbraio 6th, 2009 by admin

si schioda l’ indice
dalla bocca muta
la bocca dove farfalle
stanno ingabbiate
ali multicolori solleticano
il palato in fremiti di parole
 
amore e morte son brividi di sangue
gorgheggi persi in gola
abissi senza fine
gioia dolore
inseguono la traccia
del profumo nella carne
 
si schioda l’ indice dalla bocca muta
e là addita dove s’ invermiglia
il corso delle cose  fissate al muro
il calendario, il quadro, il pendolo,
quel mazzo di spighe secche
il tuo sorriso smarrito in nebbia
che svapora. 

Il poeta

gennaio 29th, 2009 by admin

Immagine di Liz Micheleto

Si baciarono: erano giovani e innamorati. La sera li avvolgeva in un manto.

Si tennero per mano, per un istante si guardarono negli occhi.

Si tenevano per mano mentre si lanciavano, come volando, nell’ acqua scura che li accolse nel suo abbraccio e nessuno li rivide, mai più.

Tutti si chiesero: “Perché?“. Nessuno trovò la risposta.

“Il loro amore era troppo grande per il mondo in cui sono nati, forse la loro giovinezza era troppo fresca per la terra dove é fiorita. Erano giovani, innamorati, inermi: i figli dovrebbero essere partoriti con una corazza d’ acciaio, ai nostri giorni, a rivestire il cuore intessuto di fili d’ erba ghiacciata dai geli di un troppo lungo inverno.“ disse il nonno di lei, che aveva ottant’ anni ed era poeta. E anche un po’ matto.

Da 50 Racconti brevi brevi, Ellin Selae, 1998