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l’ importanza delle minime cose

aprile 9th, 2012 by admin

Ne sentiva il respiro, così quieto. Solo a tratti si sfaceva in un sospiro affannato.

C’ è tempo, si disse. C’ è ancora tempo.
Ma sapeva che, a breve, l’ alba sarebbe filtrata attraverso le fessure degli scuri. Presto.
Aveva timore di ogni nuova alba. Di ogni nuovo giorno, perché sapeva che, alla fine, un giorno sarebbe sorto a toglierle una parte di lei. A lasciarla monca. E sentiva che il tempo si accorciava, come una corda sfilacciata fino al punto di rottura.
Raddrizzò le spalle. Lei era sempre stata una donna forte. Capace di far fronte alla vita. Alla fatica. Alla miseria. Alle infinite responsabilità. Lei.
Che venga, dunque, si disse dentro, quel giorno! che venga e mi lasci dimezzata. Io non cadrò a pezzi. Io gratterei la terra con le unghie e mangerei l’ erba del campo dietro casa e spezzerei la schiena a scavar radici, pur di evitarlo. Ma non servirebbe, a niente.
E allora lasciatemi riprendere e riporre al caldo, qui, nel palmo della mano, i miei tanti anni indietro e i miei ricordi, tesori di speranza e lavoro, di gioie e dolori: che altro è mai vivere, se non questa altalena costante?

Se lo disse in un sussurro, una donna forte e testarda, avvezza alla lotta.

Vagò indietro, socchiudendo gli occhi stanchissimi e duramente si impose il viaggio.
Gli anni passati lontani dal paese, emigranti, lui e lei, per un lavoro che permettesse loro di fare un po’ di soldi, il piccolo tesoro necessario a costruire la casa sul terreno dei loro vecchi. Una casa per tutti loro, che tutti li accogliesse. Anni felici, anni duri, e già arrivavano i figli, una piccola, poi un’ altra. C’ erano i rientri veloci al paese, dai genitori che ogni volta si facevano più anziani. Poi vennero i primi soldi da mandare a casa, perché si incominciasse a costruire e poi ci fu lui che scavava le fondamenta, e incominciava a tirar su i muri.
C’ era voluto tempo e una lunga lontananza, ma alla fine la casa fu terminata e loro ritornarono al paese, dove d’ inverno scendeva gelida l’ aria dalle montagne tutto intorno e il freddo si condensava sui vetri delle finestre nuove e lasciava ricami di brina.
Ma lei teneva accesa la fornella e scaldava i muri ancora umidi di pittura e cucinava e lavava e stirava e partoriva un altro figlio. Mentre lui lavorava alla fonderia fuori dal paese da mattina a sera.

Si scosse e si alzò dalla poltrona su cui aveva vegliato, la notte, e andò in cucina.
La fornella, si disse. Devo accenderla. Subito, prima che la casa diventi troppo fredda. Armeggiò con la legna e presto la fiamma brillò.
Conosceva così bene la casa, la disposizione di ogni mobile, di ogni singolo oggetto, che riusciva a muoversi al buio senza il minimo rumore, senza paura di inciampare o di far cadere a terra alcunché.

Presto farà caldo, si disse e tornò in camera si sedette di nuovo e riprese la loro storia fra le mani, sgranandola come grani di un rosario.
Le venivano alla mente cose da nulla, piccole faccende, gesti senza importanza e parole piene nella loro brevità. Non c’ era stato mai un qualche evento straordinario, si rese conto, qualcosa di travolgente e meraviglioso. Solo una vita comune. Eppure capì, lo capì di colpo, che ogni piccolo gesto, ogni scampolo di parola, ogni minima cosa, sommandosi gli uni alle altre, avevano formato, nel tempo, un miracolo. Che altro era stato il loro vivere insieme?
La volta che lui le aveva stretto la mano forte. Ce la facciamo. Fidati.
La volta che si erano guardati, senza parole e senza parole era entrati, fianco a fianco, nella casa appena finita.
La volta che la piccola aveva cominciato a camminare e andava incontro a lui che rientrava dal lavoro.
La volta che lui le disse: Tua madre non può star più da sola. Falla venire qui. Ci penso io, a lei.
Le infinite volte che…, tante da averne perso il conto. Frammenti che tutti si riaffacciavano in quell’ ora di fine notte, e bussavano, forte, alla porta, per essere accolti.

Perché? domandò. Se lo era chiesto spesso negli ultimi tempi. Perché? Mio Dio, c’ è tanta gente malvagia in giro, gente che ruba e ammazza, perché non ti sei preso uno di loro, invece di lasciarli vivere fino a diventare vecchi, perché?
Non riusciva a capire e sapeva che non lo avrebbe capito mai. Avrebbe accettato, questo sì, ma capito, no.

Lui si mosse appena.
Nora.
Sono qui.
Gli sfiorò il polso, pose la sua mano sulla mano di lui. Una mano grande. Buona.

Rimase ferma. Poi fu l’ alba, rosata. Entrò in punta di piedi nella stanza lasciando ditate delicate sul pavimento.
Nora sentì la mano di lui distendersi un attimo e un fremito di sangue le corse il ventre.
La mano ebbe un brivido. Breve. Niente altro.
Nel silenzio le sue dita si muovevano, accarezzando la mano di lui, percorrendo ogni dito dall’ attaccatura all’ unghia, uno alla volta. Così. A lungo. Finché non sentì esploderle dentro, nel petto, un ansito enorme che gridava e il senso dell’ amore, dell’ amore per lui, quasi la travolse, accecandola, togliendole il respiro. Fino a star male.
Ponendo il sigillo a ciò che era stato, perché niente andasse perduto.

Poi lentamente il mondo smise di girarle intorno, ogni cosa ritrovò il suo posto e lei rimise i piedi a terra, frastornata.

Quante cose dovrei fare, adesso! pensò.
Dovrei telefonare, si disse. Ai figli, certo. A chi, poi? ai parenti, agli amici, anche a quelli che, di fronte alle difficoltà, alla malattia, gli avevano girato le spalle? che si erano disinteressati di lui?
Anche a loro. Ma non adesso. Non me la sento. Perché quando avrò fatto il primo numero, ecco, allora tutto questo sarà vero. Un fatto concreto. Adesso è ancora solo un’ ipotesi di dolore, che posso gestire come una nuova intimità.

Perciò, no, non adesso. Siamo partiti insieme, io e lui. La chiudiamo insieme, io e lui, da soli, questa porta.

Così rimase lì, a contarsi e a contargli i perché e i per come dei giorni, finché non sentì aprirsi la porta d’ ingresso e la voce del figlio chiamare, sottovoce: Ma’? dove sei?
Solo allora si alzò. Dritta sulla schiena, andò in cucina, il figlio era davanti alla fornella rovente, le mani tese verso il calore.
E il giorno entrava a fiotti dalle finestre, era la luce opaca della fine inverno che già germogliava di semi e profumi di una primavera che lei avrebbe percorso pian piano, portandosi appresso ogni sua minima cosa, mantenendola fragrante come pane appena sfornato. Per tutto il tempo che ancora restava.

Dedicato a V., un uomo buono

9 Febbraio 2010