Icona della Natività – scuola di Rublev -
Ogni segno
amplissima la volta notturna, si frangono luci improvvise, saettanti rumori
pro(fondi)ssimo il silenzio
stirpe di pastori
nomadi greggi e tende a sventolar
deserti
oasi d’ acqua dolce e palme di
respiri verdi
le voci antiche frantumate perse
ingoiata la lingua
la parola balza di crepa in crepa e sfugge
il nome aridità dell’ aria
una culla
sospesa nel sospiro immoto
regge il peso dell’ unico grido
che ogni segno contiene dell’ uomo.
Every sign
huge the nightly welkin, sudden lights crushing, flashing sounds
deep the silence
kin of shepards
wandering flocks and canvas flying
deserts
oasis in sweet water and green breathing
palms
ancient voices scattered lost
the tongue swallowed
the word dashes from crack to crack escapes
from the name dryness of air
a cradle
hanging from the motionless sigh
bears the weight of the only scream
that every sign holds of men.
Tom Chambers, Night light
Ci si era arrivati un’ altra volta. Sì, era di nuovo Natale. Insomma, non natale nel senso del giorno di Natale, ma nel senso del periodo di natale, quando la città di sera si accende di luci colorate che incorniciano le entrate dei negozi e addobbano i monumenti del centro storico, quando i babbi natale scampanellano agli incroci, sorridendo ai bambini, con gerle piene di caramelle minuscole e il caldarrostaio all’ angolo dove via Indipendenza sbuca in Ugo Bassi, proprio dietro la schiena del Nettuno, chiama i passanti, insistente, con il profumo dei marroni arrostiti.
Bene. Ci si era. A Natale. Che poi, a ben guardare, a lei che fosse natale non ne poteva importare di meno. Non cambiava una grinza. C’ era la rottura di dover fare la spesa per tre giorni infilati. Per il resto, tutto come sempre. Non accettava che, poiché era natale, tutti dovevano, sì, dovevano, avevano il preciso dovere d’ essere felici, quantomeno contenti e … buoni. Una pirlata. Da bambini. Ecco, giusto: per i bambini poteva essere una bella cosa, papà natale, le renne, i regali, Gesù Bambino, la mucca e l’ asinello, i pastori sotto il cielo stellato di un paese lontano (mica tanto, poi, si potevano sentire gli echi degli spari, si potevano). Ma sì. I bambini si incantano con facilità. Per i grandi tutto si risolveva in una corsa per negozi. A spendere più di quanto ci si potesse permettere, a progettare vacanze in montagna o in qualche paese caldo. Quelli che stavano a casa, si buttavano su pranzi da otto portate, panettoni, pandori ad addolcire vecchi dissapori famigliari destinati a confluire, intatti, nel nuovo anno.
Stando così le cose, lei ci aveva dato su alle celebrazioni natalizie un bel tot d’ anni prima. Quando il figlio ormai cresciuto non aveva più richiesto l’ allestimento del presepe in casa, sotto l’ albero comprato al mercatino dei pini e aveva invece chiesto i soldi per andare a sciare con gli amici. Non ne era rimasta dispiaciuta e tantomeno stupita. Riteneva che fosse giusto così. Lei lo sapeva bene che cosa vuol dire essere giovani, sentirsi compressi e strizzati fra i “no” di una famiglia che, per il tuo bene e poiché ti vuole bene, vuole che tu santifichi “in casa” ogni ricorrenza, ogni festa comandata e non. Ne portava i segni. Ancora. Nessuno e niente glieli avrebbe più tolti.
Lo sapeva che di lei dicevano che era strana, queste erano le voci gentili, chiusa, queste le voci dei parenti psicologi dilettanti, antipatica e egoista dicevano i detrattori. Non le importava. Anche perché, pensava, ci aveva provato a essere famigliarmente idonea, ma c’ era sempre chi non coglieva il suo sforzo di buona volontà o non lo riteneva sufficiente e trovava da ridire. Così li aveva mandati a quel paese in mucchio e si era reimpossessata della sua individualità. Buona o cattiva che fosse.
Era, pensò, un natale senza neve. E meno male. Ci mancava di dover sguazzare nella poltiglia nerastra che è la conseguenza immediata delle nevicate in città. Faceva freddo. La gente passava avvolta in pellicce, in montoni, in lunghi giubbotti imbottiti, rivestiti di tessuto in microfibra. Dalle vetrine occhieggiavano guanti, sciarpe, berretti, stivali. Un negozio esponeva lingerie sottile e spumosa: rabbrividì e passò oltre. Stava tornando a casa dall’ Istituto di ricerca, dopo un altro pomeriggio speso, appunto, a far ricerche con un manipolo di colleghi “strani”, chi più, chi meno, come lei. Ci stava proprio bene, all’ Istituto, come un pisello nel baccello, un insetto nel bozzolo, al caldo, al sicuro insomma. Era ormai sera quando era uscita, e nel buio di dicembre, quando il buio arriva così presto che ti chiedi se mai c’ è stato il giorno, si era diretta alla fermata del 27B. Pieno centro. Folla. Luci elettriche. Automobili. Motorini. Ancora folla. Giovani, vecchi, giovanissimi, mezza età, di tutto un po’.
La vide fra la gente. Veniva avanti con passo abbastanza sicuro e sguardo del tutto smarrito. Una donna alta. Anziana. Capelli grigi, alle orecchie, un po’ scompigliati, come dopo una dormita. Occhi grigi, un po’ fissi. Fronte alta, pelle vizza, Bocca dalle labbra rientranti, niente denti. Un foularino leggero al collo, un cappottaccio addosso. Un paio di Clark’ s sbertucciate ai piedi, una borsa a sacco sulla spalla. Camminava. Verso, pareva, un punto. Poi, come avesse perso contatto con quel punto, si girava, tornava indietro. Si guardava intorno: cercava. Qualcosa. Qualcuno.
Non la vedeva nessuno. Le facevano largo, sì, ma non la vedevano. In tutta quella luce artificiale. Proprio come non ci fosse. E lei continuava il suo andirivieni imperterrita. Non dava l’ idea della miseria, ma di qualcosa di diverso e di più, aveva addosso un’ aria di abbandono che colpiva, faceva dolere l’ animo dentro, in profondità. Faceva venir voglia di andare verso di lei, di salutarla, stringerle la mano, cose così. Solo a poterla vedere. A un certo momento attraversò la strada. Lei la seguì con gli occhi fin che poté mentre la donna camminava sull’ altro marciapiede, finché la folla non la strinse tanto da inghiottirne la sagoma, sfumarne i contorni. Era sparita.
“Natale. Tsé!” si trovò a dire a mezza voce. Il 27B era in arrivo. Presto sarebbe stata a casa. Senza albero, senza presepe, senza candele rosse. Perché a lei che fosse natale non poteva importare di meno. Avrebbe scaricato la posta e ci avrebbe trovato, inevitabilmente le prime postcard d’ auguri, cui, regolare regolare, non avrebbe risposto. Nei giorni seguenti nessuno al mondo le avrebbe telefonato per chiedere: “Cosa fai per natale?” Ed era meglio così.
Lei, per natale avrebbe messo su un CD di un suo amico compositore, certo Dante, che faceva una musica che lei sentiva particolarmente congeniale e avrebbe scritto qualcosa, magari sul natale, magari su quella donna alta, squadrata, di carne e di ossa a cui avrebbe voluto stringere la mano, l’ unica persona a cui, in tanti anni, si era sentita sul punto di dire: “Buon Natale.” Chissà perché.
Un augurio sincero. Sentito. Vero. E non ne aveva fatto niente. Da quella cretina che era.