
Occhi stretti, chiusi stretti. Nessuna luce passa, c’ è buio, fitto e impenetrabile. Io sono nel buio.
Non voglio vedere il muro con la sua carta da parati a piccoli fiori, non voglio vedere il soffitto bianco, non voglio vedere te che, lo so, mi guardi, ma, soprattutto, non voglio vedere me, dentro.
Con i sogni caduti giù, giù per l’ imbuto a strangolo, giù fin nella pozza stagnante
giù fin nel deposito arrugginito dove vanno a finire le cose inutili e superate, quelle smarrite nei giorni di pioggia
Ho perso il fiato a correre su per le nuvole chiare,
su per il tronco ruvido
su per la collina dorata
su per la linea dell’ orizzonte lontano, lontano, lontano
E il senso era nella corsa, non nell’ arrivare
e adesso che dici
che non devo correre più
che non devo volare
che non c’ è senso in questa mia ansia d’ andare,
- accidenti a te, lo capisci, mi ammazzi -
non voglio vedere pareti fisse e vetri chiusi e la luce di questa lampada che tieni accesa qui accanto per controllarmi, lo so,
e vorresti prendermi la mano e magari stringerla
e poi convincermi che posso amarla una vita così, di calma e di parole vuote che niente hanno da spartire con l’ impossibile
- solo gesti usuali di quotidiana demenza -
ecco, allora, tu, fra me e te, sei quello fuori di testa, tu sei quello che non sa, che non capisce, che teme il tempo che passa.
Non io che vorresti legare con lacci stretti, con falsa crudele saggezza alle sponde del tuo piccolo mondo di fili di ferro e di pietra,
io sono l’ onda e l’ erba e il vento di burrasca
io sono la tempesta.

Gli occhi nella tazza del caffé
il cerchio nella schiuma
la mano che trema
un poco,
prima dell’ alba
nel buio che schiarisce
e pallido si decolora
nel biondo dell’ aurora,
apri la finestra, l’ aria fresca
solleva l’ orlo della veste
alzi gli occhi dalla tazza di caffé,
è di nuovo giorno, vedi.
E via svapora della notte
l’ umore, il fradicio sapore.
Una poesia di Clelia

Ti giungo trafelata in moto d’animo,
siedo lenta al dunque e assumo il tempo
regalandoti pagliuzze stanche di capelli.
E pensieri brevi nella mente
a ragionare finalmente,
che mi dai voce
che alla pelle spargi sale
e forse anche alla vita.
Scorgo l’ombra molto prima dell’arrivo
come tu me ne avvertissi, e m’alzo lesta
attenta e tesa allo sciabordio nel buio.
Insisti a rimestare all’onda,
crederai nella dimenticanza
e certo nella tua inutilità.
A te, che sei canto che s’invola
io bacerò la bocca che viene e va.
ho indossato la pietra
fresca di fiume
come abito di festa
pietra in grigio che
profuma d’ acqua e
parla,
a voce chiara
racconta di
canne palustri,
di tronchi, di soli e
di lune
di pugnali di ghiaccio sotto il tetto
di dolci sentori di primavera.
Scalza sono scesa al greto
e ho calzato muschio fiorente.
Una poesia di “Vieri”, Davide Pelizzari

Silenzi nebulosi senza vento
sulla strada che sembra non finire.
Il volo dell’airone che va lento
sulle chiome dei platani a salire,
di là può intravedere le paludi
e l’erba delle valli a rinverdire
bonifica, risaie e campi nudi
nell’occhio deformante di un uccello
disteso, il Delta e suoi colori rudi.

Aveva davvero creduto di farcela, a lasciare la gabbia: prima o poi.
Si era detta: “Domani.”
Si era detta: “L’ anno prossimo.”
Ci stava ancora dentro, serrata da lance rugginose saettanti fino alle nuvole, ogni attimo sempre più alte. E i domani s’ erano accumulati, gli anni erano trascorsi e lei era rinchiusa dentro al cerchio insieme a tanti altri che pure non parevano sentire il peso della limitazione, mentre i pochi, i pochissimi che stavano fuori, passavano lì accanto e neppure li vedevano.
Dentro – Fuori. Così stavano le cose.
Una mattina lo vide. Dentro. Anche lui. Nella folla del mercatino rionale.
Lui, no, impossibile. Lui doveva essere fuori, libero, un palloncino che vola, la funicella strappata di netto dal macigno che lo frenava, di un blu acceso. O forse verde. Uno dei colori che dipingono i sogni. Così.
Vecchio, ingobbito, zoppicava. Lei lo fissò incredula (è lui, no, non è lui), lui alzò lo sguardo dal banchetto di libri usati. I loro sguardi si incontrarono. Di scatto lui si girò, dandole le spalle. Si allontanò a passo strascicato. A lei parve che si lasciasse dietro una scia come fa la lumaca.
L’ incontro, se così poteva chiamarsi, la scosse. Rimase testardamente attaccata all’idea:
“ Non è lui. Non può essere lui. Mi sono sbagliata.”
Lui apparteneva al passato. Lontano: quando i sogni si destavano guizzanti nell’ aria del mattino e s’ accompagnavano ad ogni suo passo. Perché, sapete, mica è vero che i sogni si fanno solo di notte e svaporano con l’ alba. Nossignore. Ci sono dei momenti nella vita, momenti di gioventù, di forza, di speranza cocciuta, in cui i sogni ti stanno appiccicati tutto il santo giorno. E sono sogni, proprio, non pie illusioni. Con tutto il loro seguito di aspettative, di sorrisi e di “vedrai!”. E in quei momenti mica si mente a se stessi, sognando sogni così, perché i sogni pare che vivano di vita propria e non sei certo tu a metterli in piedi, e sono fatti di cose vere che aspettano solo dietro l’ angolo che tu le vada a cogliere. Ben radicati, ben definiti. Chiari come la luce.
Ma quando la vita si colora di grigio, si opacizza e tu speri un po’ meno, sempre meno, ecco, loro se la danno a gambe e una mattina ti svegli nuda dei tuoi sogni. Solo allora incominciano le illusioni, tristi travestimenti, burattini colorati che non fanno ridere e tu compri l’ abito nuovo, cambi look e ti danno dieci anni di meno di quelli che hai, sì e poi? sei sempre tu, sola, su una strada deserta. Alla fine, quando è tardi, ti accorgi delle cancellate ed allora capisci: “ Ci sono dentro.”
Onestamente alcuni si chiedevano il perché, il come c’ erano cascati lì dentro. Magari lo trovavano oppure lo inventavano come per avere una giustificazione. Altri non si davano pace e finivano per uccidersi, altri ancora dovevano venir rinchiusi in luoghi dalle pareti bianche, con luci tenui e fiale ben sistemate su tavolini di acciaio. Ma i più erano fortunati e non se ne accorgevano, scambiavano le illusioni per i sogni veri e credevano che tutto andasse per il verso giusto.
Così stavano le cose quando lei lo aveva visto al mercatino, chino su vecchi libri.
Era tornata a casa, camminando lentamente. Aveva posato la spesa, lattuga, carote e formaggio, sul tavolo di cucina, aveva appoggiato le mani sul bordo del secchiaio e aveva incominciato a piangere.
Dio, come ne era stata innamorata.
Era stato il suo sogno più bello, quello che era stato lì lì per realizzarsi. E se non era accaduto, era dipeso dal fatto che i Sogni, quelli con la s maiuscola che lui sognava, la spaventavano. Ecco, sì. Lei aveva sogni piccoli, lui grandi sogni che comportavano scelte definitive. Ne aveva avuto paura. Gli aveva detto addio anche se il cuore le faceva un gran male da come batteva forte, impazzito. Gli aveva anche chiesto scusa per non essere coraggiosa e forte come lui. Si era sentita un verme. L’ aveva lasciato seguire i suoi Sogni.
Lui l’ aveva avvertita che con sogni piccoli non sarebbe arrivata da nessuna parte: avrebbe finito per svolazzare intorno alla luce in circoli sempre più larghi, fino a rimanere, cieca, senza più luce. Infatti la luce s’ era spenta e lei, che non aveva grandi occhi luminosi a guidarla, aveva perso la strada e tutto quanto. Questo era accaduto a lei. Ma a lui? che aveva creduto potesse cavalcare i Sogni, realizzare il canto compiuto di se stesso, a lui che era accaduto? E perché?
La settimana successiva ci fu ancora il mercatino con le sue bancarelle un poco sghembe colme di verdura, di frutta, di fiori, di vesti svolazzanti nell’ aria, di vecchie riviste e di libri. Lei lo cercò fra la gente, ma non lo vide.
Solo tempo dopo ed era ormai trascorso un mese e il caldo affogava le strade e dal cemento si levavano ondate di calura tremolanti nell’ aria, eccolo: “E’ lui.” si disse.
Su una panchina in uno sputo di verde, fra alberi infiacchiti dallo smog e dalla polvere.
Si avvicinò. Proprio lui. Senza dubbio: manco l’ ombra di un dubbio.
D’ improvviso sentì un sussulto dentro: un battito sfarfallante, un attimo di confusione, un rigurgito di passato.
Dio, l’ amava ancora. E poiché l’ amava, gli si fece vicina, gli sedette accanto e, gentilmente, per non farlo fuggire, lo prese per mano, gli sorrise e non gli chiese come mai anche lui fosse finito lì, con tutti loro. Non era così importante, in ultimo.
****
Due vecchi, un lui e una lei, su una panchina in quattro metri di spazio ritagliato nel traffico, mano nella mano. Nessuno li nota. Nessuno s’ accorge che un cancello s’ è aperto, una porta scricchiolante sui cardini si è spalancata e da lì occhieggiano un filo di luce, l’ ala di una rondine, una goccia di pioggia, una bava di ghiaccio: un sogno, in ultimo, s’ è realizzato. Un piccolo sogno.

risento frangersi l’ onda
in voci d’ acqua
riecheggiare il grido dei sassi
impietriti occhi aperti fissi
mi tagliano e scuciono in
ogni mia minima parte,
fettucce di tendini aspri e
giunture divelte dalla volta
del cielo
mi avvolgono come le fasce il neonato
e sorreggono fino alla riva
ricadendo in guizzi di dimenticate fonti
dove il buio annega irrespirato in fremito
d’ ombra.
Fetale.
Ed è allora che respiro.
Acrobata, sul filo danzo
da bave di ragno
teso
acrobata mi piego
sulle mani reggo
del corpo il peso
m’ avvito e mi sciolgo
fra parole taciute e
speranze stremate
in sequenze armoniche
ritmate e piene:
il sotterraneo inseguo,
io ragno
acrobata del sogno.
e quando tutto sarà solo
cenere
essenza di fuoco distillato,
a mano aperta, a dita stese lascerò
polvere di ricordi alla
terra che
la terra nutra
- la terra dell’ angolo calpestato,
proiezione
della mente
dove ho cercato cercato sempre
dove ho trovato trovato sempre
il nocciolo, il seme, il gancio fra i battenti -
che il sole scaldi la traccia e
il cane la segua fin dentro
il bosco, lungo il greto,
fra i sassi,
fino al tronco
che ruvido ha protetto i cartigli incisi
le tappe vive
dei giorni in fila
sfiancante linea
in rosso sangue.