Il giorno che tamponai il cassonetto del rusco

ottobre 9th, 2011 by admin

Immagine di Robinya

Anche quel giorno incominciò con il suo bravo ” niente di nuovo sul fronte occidentale” e neppure, ad essere onesti, sugli altri fronti. Tutto di vecchio, anzi. La solita sveglia compì il suo dovere di sveglia, scaraventandomi fuori dal sonno che poi non era un gran bel sonno, ma sempre qualcosa di simile al riposo, o perlomeno all’ assenza di pensiero con quel che pensare si porta appresso. Come da regola allungai la mano a farla tacere, e come da copione mi alzai, immusonito e risentito. Erano già le sette. Solo le sette. Passai in bagno. Andai in cucina. Il rituale dell’ appena alzato ebbe così inizio. Caffettiera sul fornello. La voce del notiziario in sottofondo. Non che neanche lì, nelle news del TG, ci fosse qualcosa di extra. Era la solita menata: incidenti in tutti i paesi del mondo o quasi, borse in calo, previsioni sul futuro della global finance da far stramazzare un elefante, figurarsi un piccolo investitore come me, e poi cronaca nera, un altro omicidio – la polizia è sulle tracce dell’ assassino -, un’ altra villa svaligiata – la polizia indaga -, un barbone morto di freddo – pare – trovato fra i suoi cartoni, una delizia di dejà vu, insomma.

Intanto il caffè gorgoglia. Lo verso. Buono. Quasi quasi mi lascio andare ad un istante di godimento papillare. Non c’ è tempo. Rasatura. Mi taglio o non mi taglio? Decido per il non. Uso il rasoio elettrico, vecchio ma tranquillo. Dopobarba da ipermercato reparto profumeria. E se facessi un colpo di vita e me ne comprassi un flacone di quelli veri? Super, dico.

Pantaloni, camicia, cravatta a nodo scorsoio – uno di questi giorni finisce che mi ci impicco con una cravatta -, giacca di tweed. Soprabito? Impermeabile? Che aria tira fuori? Occhieggio di sbieco la finestra. Mica ne ho voglia di aprire i vetri e saggiare l’ aria. Anche perché prima dovrei tirare su le tapparelle e quella della camera ha il nastro rotto e non si può.

Che poi io abbia un cattivo rapporto con i nastri delle tapparelle che mi si rompono all’ improvviso e con frequenza demoniaca, lasciandomi nell’ oscurità, è un dato di fatto. Casa mia pare una scacchiera: stanza al buio per tapparella ingestibile, stanza piene di luce per tapparella rimasta inchiavardata in alto e così via. Quando avrò tempo e voglia le riparerò.

Fino ad allora, che mi frega? Mica si vive di tapparelle.

Guardo il soprabito. L’ impermeabile. Li mando entrambi a quel paese.

Acchiappo la borsa con il power book, è il mio lavoro vivere in simbiosi con i computer.

Esco in giacca. E fuori c’ è un freddo birichino, direbbe quella brava donna di mia madre, sempre fine, lei. Casa tirata al burro, la sua. Quando entri ti fa cambiare le scarpe,. Praticamente ti infila le ciabatte, lei. Le sue tapparelle stanno al loro posto. Le ha educate bene, lei.

Il freddo mi strina la faccia che già mi brucicchia per il dopobarba. Mi penetra sotto le maniche della giacca, mi scava sotto la camicia, mi pizzica la pelle. Mi sento l’ occhio torvo. Torvamente apro la portiera dell’ auto. Dentro c’ è ancora più freddo, pare impossibile. Il lunotto e il parabrezza sono coperti da un leggero strato di ghiaccio. Sbrinamento. Si sta facendo tardi. Scaldo il motore. Dallo scappamento vedo uscire una folata bianca. Insomma è un inverno da far schifo. Cambia qualcosa per me? Inverno o estate, dico. Non cambia niente.

Eppure dovrebbe.

Cambiare qualcosa, un pelo solo, magari.

E se non cambia niente è colpa mia. Mica di un altro.

Mica di mia madre. Mica della vita.

Sono io che sono un fesso.

Lo sbrinatore fa il suo dovere, il ghiaccio si sta sciogliendo. Si aprono chiazze trasparenti e umide sul parabrezza e intravedo gambe in movimento, auto che passano, gesti frettolosi di gente infreddolita. Sento un clacson impaziente. Il solito fiume che scorre ogni mattina verso il lavoro, ininterrotto, di corsa, perennemente in ritardo, perennemente sull’ incazzato, poche speranze, sempre meno sogni, salvarne uno è già un successo, e poi l’ ufficio, la fabbrica, i colleghi stronzi anzichenò, il boss che spacca, pretese…

pretese di puntualità

d’ efficienza

di affidabilità

di onestà

di abnegazione, perché no?

Ma io? Io, io, io, porco di un mondo ladro, io vorrei un po’ d’ aria.

Si soffoca in auto, adesso. Abbasso il riscaldamento – quando l’ ho acceso non ricordo e non mi importa -, ingrano la retro e vado. Sparcheggio. Rapido.

Il botto mi prende alla sprovvista. Ho dato dentro al cassonetto del rusco dietro a me. Il cassonetto rimbalza. Sussulta. Un ragazzo si ferma e guarda.

” Vuoi qualcosa?” gli faccio. Se ne va.

Prima, freccia, cerco di inserirmi nel traffico. Ci ripenso. Retro. Tampono di nuovo, di brutto, coscienziosamente, il cassonetto. E che nessuno mi chieda il perché. Son cazzi miei.


4 Responses to “Il giorno che tamponai il cassonetto del rusco”

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  1. 1 fernirosso

    alla faccia della faccia sig.daniela! Ciao.f

  2. 2 admin

    :-)

  3. 3 miriam

    Racconto gustosissimo, ne apprezzo la semplicità, sincerità, la costruzione formale fatta in gran parte di prosa e in piccola parte di accenni poetici quando la riga diventa verso. Sembra la mia mattina, il mio risveglio, il mio coro interno che fraseggia un malessere… ma si può sapere chi l’ha scritto? Comunque bravo davvero!!!

  4. 4 admin

    Sono molto contenta che ti sia piaciuto, questo mio “pezzo”, davvero! é nato dalla rivisitazione delle mie mattine e dal retrogusto amarognolo del risveglio e dell’ aspettativa di null’ altro se non dell’ ordinaria routine. Ti ringrazio, Miriam.

    dmk