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Graffiti di poesia

novembre 24th, 2008 by admin

Vagabonda sei, poesia,
che corri a perdifiato e
ansante trafili il graffio su
carta stagnola,
il graffito sulla pelle incidi e,
di parole maschera tatuata,
essenza in gocce ti fai e respiro
di intimità sofferte
di percorsi tortuosi
e ricorrenti.

 

Antologia del Premio Giuseppe Longhi, Città di Romano di Lombardia, 2007

L@ lumaca

novembre 23rd, 2008 by admin

Mia nonna mangiava le lumache. Erano una ghiottoneria, per lei. Andava a cercarle dopo i temporali estivi lungo i viali del giardino, fra le siepi di bosso e le metteva in un secchiello. Poi, dopo aver compiuto il rituale, che non mi va di ricordare, della preparazione, le cucinava e le gustava. Mio padre non voleva vederla a tavola con noi a mangiare le sue lumache. La cosa gli faceva senso.

Ricordo che mia madre gli diceva che la nonna s’ era preparata, a parte, qualcosa di diverso, solo per lei. E non ricordo per che cosa le lumache venissero spacciate. Solo una volta mio padre mangiò la foglia e capì. Si alzò da tavola disgustato e uscì di casa.
A me facevano pena, le lumache. Perché mi piacevano, con le loro antenne tremule, e la scia luminosa che si lasciavano appresso come un piccolo strascico. Mi piaceva il loro modo di andare: lento ma senza incertezze.
Ma adesso è passato un sacco di tempo e di lumache qui dove vivo non ce ne è neanche l’ombra.
Per la verità, di lumaca ne vedo ancora una, ma è tutta un’ altra storia. Ci convivo con una lumaca. Ci lavoro. Mi ci diverto. Ci faccio le ore piccole. Con una lumaca. Altrimenti sarei completamente solo. Delle volte mi capita di pensare che se non fosse per questa mia lumachina tonda e arricciolata, non saprei neppure più sorridere né… Si sente da sempre che gli animali offrono un’ alternativa alla solitudine, ma per lo più sono cani o gatti, a volte uccelli, che so, canarini, pappagallini…, di lumache da compagnia non se ne è mai sentito parlare. Eppure io  ho la lumaca da compagnia.
E mi combina anche strani scherzi. Mi prende in giro. Mi dà una smossa. Ho provato ad ignorarla, lasciandomi andare alle più complete pigrizia ed indolenza, ho resistito in stato d’ abulia per uno, due giorni, poi, niente da fare. Ho smesso.
E’ stato per colpa sua se l’ altra settimana ho incontrato Emilia.
Le donne mi terrorizzano e dunque sto loro alla larga. Non intervengo mai in discorsi al femminile, non prendo mai parte a situazioni giocate sul femminile, non mi sbilancio mai. Sulle mie. Sto sulle mie.  Questo spiega perché non ho una compagna, questo insieme al fatto che sono sempre stato piuttosto brutto, sapete, un brutto bambino (è una storia quella che raccontano che i bambini sono sempre tutti belli), poi un brutto ragazzo pieno di foruncoli, con due orecchie a sventola da far paura, infine un brutto giovane senza foruncoli, ma sempre con le orecchie a sventola ed una prematura calvizie, infine, adesso, un brutto uomo calvo e ingobbito. Insomma ci ho provato a farmi una compagna nel passato, ma ho preso dei gran rifiuti, delle buche, delle risate in faccia. Così ci ho dato su. Mica è stato facile: mi ci sono disperato sopra in un certo periodo, anzi, poi mi sono rassegnato e, alla fine, ho trovato la lumaca che adesso mi ha fatto conoscere Emilia.
Abbiamo riso Emilia ed io parlando delle cose che abbiamo in comune: è stato stupefacente scoprire che almeno un’ altra persona amava certi film, certa musica, certi scrittori come me, ma ancor di più è stato scoprire che Emilia scrive poesie così come anch’ io scrivo poesie. Ci siamo scambiati i nostri versi, ci siamo scambiati i nostri pareri, i nostri commenti, siamo stati svegli la notte a leggerci, ci siamo consigliati, ci siamo sostenuti: due poeti.
Emilia ed io siamo due poeti che mai nessuno pubblicherà, ma poeti siamo lo stesso. E conosciamo le note che cantiamo e adesso possiamo cantarle l’ uno all’ altra, non solo a noi stessi. E’ stata una soddisfazione incredibile.
Ho avuto dei gran bei momenti quest’ ultima settimana con Emilia. Solo che finirà presto, mi rendo conto.
Perché sta per arrivare il treno che porta Emilia a Bologna dove io vivo, da Modena dove vive lei: avendo scoperto che stiamo così vicino, lei ha pensato che fosse carino incontrarci. Che cosa potevo dirle? “No, è meglio di no.” Per la verità ho provato a tergiversare. Ho creato delle difficoltà, ma erano solo ripari di sabbia. E’ bastato un niente di vento per abbatterli. Così adesso me ne sto ingobbito nel cappotto grigio sulla pensilina del binario 3 ad aspettare che arrivi il diretto da Modena. Con su Emilia che mi guarderà e scoppierà a ridere. Magari no. In ogni caso non subito.
Una che scrive le poesie che scrive lei, ha per forza un bell’ animo sensibile. Magari continueremo anche a scambiarci le poesie… Ma ogni sogno mi sarà precluso. Perché quest’ ultimo mese qualche sogno piccolo, proprio piccino, mi è scappato di farlo: che nel tempo fra Emilia e me ci potesse nascere che so, una simpatia …
Ecco il treno. Arriva. Si ferma. Grande. Grosso. Lucente. Tira un’ aria che pela. Mi prenderò anche un accidente, se mi va fatta bene. Per che cosa poi? Per uno scherzo da prete della lumaca dell’ indirizzo di posta elettronica.
Incominciano a scendere i passeggeri. Lei, ha detto, indosserà un loden rosso. Scende una marea di loden, verdi, qualcuno grigio. Poi, ecco una fiammata dalla porta di una carrozza di seconda classe. E’ lei. Non può esser altri che lei. Io di loden rossi non ne vedo altri.
Vedo solo un armadio di donna che scende con agilità insospettata i due gradini della carrozza. Un armadio. Un viso tondo, occhi celesti, capelli castani, espressione apprensiva. Si guarda intorno. Incontra il mio sguardo interrogativo e, lo so, lo sento, sollevato. China il capo di lato, accenna un sorriso.
“ Claudio?” domanda incerta.
Sì, dico. Sì.
Allora sorride. “Oddio, che fifa, dice, avevo paura di trovarmi davanti un ragazzo giovane  giovane che si sarebbe preso paura a vedermi… ”
Scoppiamo a ridere. L’ ansia se ne va. Siamo due poeti, in fondo. Dotati di tanta, ma proprio tanta sensibilità.

Da Snail

nuvole a margine

novembre 22nd, 2008 by admin

in bilico ti tieni sull’ orlo
ti smarrisci in fluttuanti molecole
in granelli di infinito che
il tempo rimescola e ricompone in
forme differenti dove il seme
depone di percorrenze universali
per future fioriture e,

a margine,

le nuvole.

note di un altrove

novembre 21st, 2008 by admin

 

Il suono risenti di note,
filanti su incroci di stelle
 
lo spazio insonne
e sospeso
canta
lungo il rosario sgranato
dell’ altrove sottopelle
inciso.

Frammenti

novembre 20th, 2008 by admin

Steven Kenny, “Constellation 3″, 2005

volare notturno,
planare nel vento
sottile
di corrente in corrente
 
solo aria smossa
silenzio e vuoto
assoluto
 
palpiti d’ ombra
precipitano
frammentano il
sonno e
 
il tempo a venire si
slabbra in respiri
coniugati al passato.

Rom

novembre 19th, 2008 by admin

Sedici  anni e già donna. Pronta per il matrimonio. Pronta perché i suoi le scegliessero il giovane adatto, quello che più si rendesse gradito alla famiglia portando doni e denaro in quantità adeguata. Che poi fosse adeguatamente giovane e simpatico e, perché no, gradevole d’ aspetto, non importava più di tanto. Che poi fosse innamorato di lei, era escluso. Non avrebbe potuto, perché nemmeno la conosceva.
 
Lei, d’ altra parte, non contava. Suo padre e sua madre e la famiglia decidevano quello che per lei era meglio. Era così perché da sempre era stato così. E lei, una sedicenne alta, slanciata, capelli lunghi, folti e delicatamente arricciati, occhi scuri profondi da perdercisi dentro come in un mare d’ ombra, era una brava figlia che, maggiore di sette fra sorelle e fratelli, aveva  imparato presto i suoi doveri, poiché fin da bambina aveva avuto il compito di curare i piccoli di casa in quanto non era previsto dalle regole che la madre, perennemente incinta, perenne partoriente, facesse alcunché. Dava ordini. Prendeva il the con le altri madri e con loro si intratteneva pomeriggi interi, mentre i piccoli strillavano, andavano gattoni, litigavano. Toccava a lei, la maggiore, d’ aver cura di tutti. Padre incluso, quando era fuori di prigione. Andava a prendere l’ acqua, cucinava, faceva il bucato, accudiva fratelli e sorelle: erano i suoi doveri.
Non sapeva né leggere né scrivere.
Poi, apparentemente d’ improvviso, qualcosa le scattò nella mente e nel cuore. Fu quando si incominciò a parlare di farla sposare. Lei? Sposata? A chi? Le ragazze della sua età, lì nel campo, la invidiavano. Ma lei incominciò a pensare. A pensare che sarebbe diventata come sua madre. Sposata a qualcuno come suo padre.
Voleva bene a sua madre e a suo padre. Ma qualcosa non le tornava. Non le tornava l’ immagine di se stessa stesa su un letto a concepire figli, a partorire figli, sperando che le nascesse una femmina per prima perché così avrebbe avuto garantito l’ aiuto per tutta la vita. 
Quale vita?  Quella vita che non faceva per lei.
Ho conosciuto S. H. quando gli assistenti sociali, cui la ragazza s’ era rivolta, l’ accompagnarono a scuola. Aveva l’ età per frequentare i corsi EdA,  e nell’ occasione mi fu spiegato che era letteralmente fuggita dai suoi, opponendo un netto rifiuto alle richieste famigliari. Era ospitata in una casa famiglia.
 
Voglio imparare a leggere e a scrivere
Voglio prendere il diploma delle medie
Voglio trovare da lavorare
Non mi voglio sposare, non così.
 
Era tosta. Mi apparve, in un mondo dove i più tendono a adeguarsi, a farsi andare bene anche quello che sentono non essere un bene per loro, come la classica eccezione che conferma la regola. Una che degli schemi non sapeva che farsene. Una che aveva deciso di dire un bel chiaro, rotondo no.
 
Si impegnò, sgobbò, fu supportata. Imparò a leggere e a scrivere in stampatello, poi in corsivo. Sua madre partorì il nono figlio. La mandò a chiamare. Lei sparì per dieci giorni. Mi dissi: “L’ ho perduta”. Ma tornò, più decisa che mai. Le chiesi: “ Come sta mamma?” “Bene” mi rispose e fu tutto.
 
Si incaponì che voleva tentare l’ esame di licenza. Lo superò. Tramite l’ assistenza sociale trovò un lavoro, in prova. Si dimostrò brava. Dopo il periodo di prova fu confermata.  Era felice, quasi radiosa, l’ ultima volta che la vidi. Donnina forte, convinta di dover fare scelte diverse da quelle che le venivano proposte, anzi imposte,   convinta che di dover decidere, lei, solo lei, per se stessa, senza paura di confrontarsi con la  realtà, senza paura di misurarsi con gli altri e soprattutto senza paura di  vincere.
 
E mi ha colpito in tutto questo essere diversa da quelle che come lei erano cresciute in quell’ ambiente di carrozzoni migranti di paese in paese, di panni stesi su lunghi fili sull’ orlo delle strade extra-periferiche di città sempre nuove, a volte poco ospitali, se non sospettose, quello che, a prima vista, poteva sembrare un controsenso, ma in realtà era solo un raggiunto perfetto equilibrio fra la negazione di un sistema di vita rifiutato e il rispetto profondo per le sue radici culturali mai dimenticate. Perché, quando, per esempio, le capitava di dover compilare un modulo, alla voce: nazionalità, lei sempre e comunque, lei la ragazza che da sola si era liberata, scriveva ROM. Convintamene. Serenamente. Con splendida coerenza.

Antologia del Premio Lingua Madre - Centro Studi e Documentazione Femminile di Torino

Educazione degli Adulti: corsi per adulti o comunque persone che abbiano compiuto il quindicesimo anno d’ età, finalizzati all’ alfabetizzazione all’ italiano e al conseguimento del diploma di licenza media, istituiti con Ordinanza Ministeriale nel 1997. Si rivolgono a italiani e stranieri e costituiscono uno strumento importante di integrazione socio – culturale.

Ricordi di primavera

novembre 17th, 2008 by admin

 Una poesia di Benito Ciarlo

Case, non barche
vie polverose, non giardini lindi
sono i ricordi miei di primavera.
Cieli offuscati dalle voci rauche
di gente stanca di gridare al vento.
Canti d’un cardellino
cieco, ingabbiato e solo
che, per amore 
ormai chiamavo Omero.

E cani, in branchi, liberi d’andare.

Aspettando Caterina

novembre 16th, 2008 by admin

Odd Nerdrum, Niemowlę, 1993

Me lo ricordo il Gabro, me lo ricordo bene. Fin da piccolo, quando faceva diventar matti tutti in casa, tanto era vivace, al punto che, una volta, quella buona creatura della madre, dopo essergli corsa dietro per tutta la casa, su e giù dalle scale, fuori e dentro dalle stanze, – e non ricordo che accidenti il Gabro avesse combinato -, riuscì, stravolta, a bloccarlo in bagno, nella cabina della doccia. Il Gabro non aveva più vie di fuga. Ricordo che la madre lo fece nero: roba da telefono azzurro. Solo che a quei tempi il telefono azzurro neanche si sapeva che cosa fosse e le sberle erano ancora considerate un sistema educativo di tutto rispetto.
 
Il Gabro non aveva un padre nel vero senso della parola: ovvero, un padre ce l’ aveva, ma una figura paterna, no. Suo padre era un medico di buona rilevanza che aveva maturato una sua personale filosofia del vivere, quella dell’ insoddisfazione perenne, riferita alla politica, alla scienza, al consumismo, al mondo intero in generale. Era insomma una brava persona che aveva perso, a un certo momento, ogni punto di sicuro ancoraggio, non che glielo avessero sottratto, se lo era fatto scivolare da sotto il sedere da solo e a rincorrerlo non ci pensava proprio. Non so quanto la mancanza della figura paterna abbia potuto incidere sulla vivacità incontrollata del Gabro bambino e, successivamente, sulla scarsa inclinazione allo studio del Gabro scolaro.
 
Ad ogni modo accadde che, terminata la scuola dell’ obbligo, il Gabro annunciò che voleva andare al classico: tutti rimasero  a bocca aperta, visti i non esaltanti precedenti. Fu iscritto. Fece il classico, si diplomò con ottimi risultati e così nessuno si meravigliò quando disse di voler frequentare giurisprudenza e per di più in una città lontana dalla sua, dove l’ università era considerata prestigiosa.
 
Fu esattamente a questo punto che il Gabro entrò nella mia incasinatissima vita. Come unica parente residente nella città universitaria, mi fu affidato. Per anni andammo a fare la spesa insieme ogni sabato, e io ho lottato per anni, ogni sabato, con le unghie con i denti, per non fargli comprare le schifezze di minor costo che trovava esposte. Infatti il Gabro era profondamente consapevole del fatto che i suoi si sacrificavano per mantenerlo agli studi e cercava di limitare le spese. A me pareva di sognare, a me, madre di un figlio che, all’ epoca, era uno che pensava che, se studiava, faceva un piacere alla sottoscritta e così tutto gli era dovuto, perché era lui quello che si sacrificava.
 
Stare con il Gabro era come volare in arie leggere, essere sospesi su prati in fiore.
Non che fosse perfetto. Aveva in sé una calma pacificante e controllata che lo portava a una esasperata lentezza. Se si doveva andare da qualche parte, lui  non era mai pronto. Era ancora in bagno. Si era chiuso fuori dalla camera, non trovava i calzini. La sua calma, che il più delle volte risultava un anti stress naturale, creava, in questi casi, irritazione, frenesia, caos. E ritardi inenarrabili.
 
Passarono gli anni universitari e tutto filò liscio. Si laureò con il massimo dei voti. Celebrammo il giorno della laurea andando a pranzo fuori, in un ristorante con alcuni suoi amici.
 
Gli amici. Il Gabro aveva amici. E amiche. Non aveva una ragazza. Non ci pioveva: aveva delle congrue difficoltà a trovare l’ anima gemella. Già al terzo anno d’ università la cosa incominciò a preoccuparlo, ma non troppo, mi diceva. Con il passare del tempo invece, restando immutata la situazione, si preoccupò sul serio. Era strano, perché era un bel ragazzo, con un bel fisico.  Era un ragazzo intelligente, un piacevole interlocutore. Non si capiva proprio. Credo che dipendesse dal fatto che cercava non una ragazza, ma la ragazza. La sua ragazza. Quella nata e destinata a lui. La sua metà. E loro, le ragazze, lo sentivano, che non erano quelle giuste, che non erano tagliate per quell’ impegno e se la davano a gambe.
 
Poi, come Dio volle, la incontrò. Dorata come il sole di giugno. Occhi come il cielo di primavera quando non tira vento.
La riconobbe subito. E lei riconobbe lui. Si sposarono. Che poi lei avesse quella sua malattia che la faceva girare con l’ insulina in borsa, al Gabro proprio non importava.

Ora aspettano – aspettiamo tutti – Caterina. Non che sia stata una passeggiata: Caterina è stata cercata, si son fatti voti e accesi ceri, per lei. Infine, sì. Eccola nel grembo della madre, un 5 centimetri di creatura, viva.
Non ci saranno accertamenti particolari. Non ci sarà miocentesi che attesti quanto è probabile che Caterina sia sana e normale oppure no. Non sono necessari, dice il  Gabro, perché è attesa, comunque lei sia. E’ un dono. E la sua sposa annuisce: un dono.

ombre in divagazione

novembre 16th, 2008 by admin

 

ombre nel verde
stagliate a ritagliare
disegni di alieni rimandi
di antiche mendaci futilità
in rupestri scritture incise a colori
di terra e di sole sotto l’ osso,
nel vivo
scaturire della vena,
in segreti rivoli da navigare in
silenzio,
lunghe si fanno le ombre
quando l’ isola appare,
l’ isola dove  tutto si spegne
e tutto riarde rifatto
lavica essenza,
dolore, sorriso, odio, amore.
Incorrotti.

Fu vita

novembre 15th, 2008 by admin

Una poesia di Paolo Secondini


A vederti nulla più sembri,
vicolo antico, 
che cocci di mura diroccate, 
dove gechi e licheni
hanno dimora 
come uomini un tempo.

Eppure nell’aria fantasmi 
di vagiti aleggiano ancora, 
e grida disperate di vecchi 
per sponde d’altra vita.

E frullano sospiri, 
come battito d’ali,
dentro il portone arcano: 
bocche disgiunte da un bacio 
appena dato, tra rossore 
di sguardi e pianto muto