La colpa
Fotografia di Imogen Cunningham
Stava aspettando che tornasse a casa, era in ritardo. Eppure sapeva bene che quella sera dovevano venire da loro i soliti amici, una cena alla buona e tante chiacchiere, niente di particolare, ma insomma avrebbe dovuto avere almeno la cortesia di farsi trovare a casa a un’ ora decente, di preparare qualcosa da mangiare, anche solo un’ insalata, di mettere in ordine.
Invece niente. La casa era un disastro, se possibile peggio del solito. I giornali di tutta la settimana erano sparpagliati davanti al divano. C’ erano le sue calze, il suo pigiama verde scuro – mai che indossasse qualcosa di chiaro, sempre colori scuri e ringraziare se ogni tanto sgusciava fuori dal nero -, i pettini, la spazzola e il phon erano abbandonati in bagno, spersi fra la vasca e lo sgabello giacevano l’ accappatoio e gli asciugamani.
Meccanicamente li raccolse, li buttò, appallottolati, nel cesto della biancheria sporca. Si faceva tardi. Pensò, adesso telefono. Se almeno avesse tenuto il cellulare acceso. Macchè. Spento. Morto. Che cosa se l’ era comprato a fare?
Inutile cercare di star calmo, proprio non ci riusciva. All’ irritazione era subentrata la rabbia. Non ne poteva più. Ormai era troppo tempo che la situazione stava andando a picco. E loro due lo sentivano. Lo sapevano, ma non ne facevano parola. Andavano avanti come se tutto fosse normale. Si alzavano la mattina, bevevano un caffé insieme, in piedi, in cucina.
Vado, diceva lui
Ciao, diceva lei
Avevano perso l’ abitudine di scambiarsi un bacio breve e ancora assonnato da molto molto tempo, ma nessuno dei due ne aveva fatto una tragedia.
Si ritrovavano la sera.
Ciao, diceva lui
Ciao, diceva lei
E accendevano la televisione per il telegiornale che condiva le loro cene precotte, a volte uscivano, avevano amici, andavano a un cinema, in pizzeria o, se potevano permetterselo, in trattoria sulla collina, buon vino e tagliatelle fatte in casa.
Lei voleva un figlio, ma sapevano, tutti e due, che non se lo potevano permettere, per il momento. Più avanti forse, quando avessero potuto trasferirsi in un appartamento più grande, quando avessero finito con le rate della macchina –l’ aveva voluta lui, bella, grande, comoda, costosa, e che neanche uno sfizio mi posso togliere? -, con le rate della lavatrice-asciugatrice, del frigo congelatore maxi, quello che ti dà l’ acqua fredda direttamente – li aveva voluti lei, – insomma servono, con me fuori di casa tutto il giorno -, sì, insomma le rate per tutto quello che avevano creduto necessario a tener ben nascosto la distanza che si stava scavando fra di loro,
ogni giorno la fenditura si allargava, era diventata una crepa dagli orli frastagliati, era ormai fuor da ogni controllo,
e la terra aveva cominciato a tremare sotto i loro piedi che andavano in direzioni parallele e mai si incrociavano,
a tremare forte mentre lampi arancione aprivano le nuvole e loro niente, immobili come lampioni piantati nel cemento di una strada trafficata senza semafori che dessero il via,
come paletti conficcati fitti intorno a un campo fiorito per precludere l’ ingresso a tutti e a loro due in particolare.
Si rese conto che era buio. Tirò un pugno all’ aria. Aprì il frigo ultramoderno e dentro trovò la desolazione del solito tonno, di due uova – scadenza ignota – yogurt scadenza ok -, non ha preso niente per stasera, pensò. E ancora, adesso chiamo Anna e Fede e dico loro di non venire, che non sto bene. Proprio mentre allungava la mano per prendere il telefono senza fili, sì, l’ aveva comprato lui, per il design così particolare, il telefono suonò. Era un uomo, voce mai sentita. Poche parole: la prima, incidente, un’ altra, grave, una terza, ospedale. E’ meglio se viene subito. Fine della comunicazione.
Spense il telefono meccanicamente. Si guardò intorno, meccanicamente. Ho trentotto anni, pensò. Lei ne ha trentacinque. Possiamo ancora avere un figlio.
E pregò, Dio, fa che si salvi. E ripeté: Dio, fa’ che si salvi.
Mentre saliva sull’ auto dotata di tutti gli optional che il modello consentiva, mentre metteva in moto e ingranava la marcia, aveva in mente solo il tempo sprecato, tutto ciò che loro due non avevano condiviso, l’ allontanarsi nel silenzio di una colpa che non era loro, che non sentivano loro, ma che li aveva messi al muro. Perché non esistono sostituti possibili all’ amore.
Decisamente. Definitivamente.
Incrociò la macchina degli amici al semaforo. Fede richiamò la sua attenzione sluminando. Lui non vide niente. Niente.