“E tutti questi mondi, prima ancora che di leggi, di ragioni o di altre cose pratiche, hanno bisogno della poesia, che sa capire le cose schiave, ascoltare la loro voce e avvicinare la loro immagine fuggevole”. –
Maria Zambrano, Filosofia e Poesia.
- Chi potrebbe? – mi avevi chiesto
- parlare della propria storia
come se fosse solo sua? -
Poi ti fermasti un attimo, guardandoti intorno
come per cercare qualcosa e io con te
ma senza vedere e sapere cosa cercavi.
Un attimo dopo riprendevi come se nulla ti avesse interrotto.
- Chi se abituato a camminare nell’erba
potrebbe pensare di trovarvi
una sola verità tra le miriadi
di piante insetti e tutti gli altri esseri identici
come le gocce d’acqua
che la pioggia dissemina in fonti di vita in questa terra
e un attimo dopo senza spiegazione
quel carico di cielo si dissolve
esponendo fino all’ustione i getti i cretti
per l’ insaziabile indifferenza del sole.
Le nostre vite dense pesanti
come quelle delle erbe pensanti per un attimo intere
si decompongono
come se anche per noi ci fosse una raccolta e il vento ignaro
di qualsiasi futuro ci strappasse il filo per uno dei suoi drappi.
Tra l’inizio e la fine
tutto e tutti
camminiamo certi e siamo residui del tempo.
Tutte le stagioni un cumulo di foglie sulla porta
e ognuno ha nel proprio ramo
la radice recisa di un altro vivo per le vite di tutti
i passati e i futuri tenuti insieme da qualcosa che nessuno vede eppure
sa esistere
in questa contemporaneità che ci assilla
che ci fa credere di vivere questa come unica rappresentazione
della storia e in questo oggi
recitata ancora e senza fine tutti i futuri
prossimi e anteriori. -
Poi, ti sei fermata un’altra volta e di nuovo
per un breve attimo non hai detto nulla.
T’incuriosiva il rumore dell’acqua come una parola
lasciata a pochi passi da te dalla riva.
Sembrava che quel lambire del mare
la sabbia della costa
fosse una luce che tu vedevi ascoltavi
e riguardava te ma non era per te sola. Anch’io la osservai
finché tu non mi guardavi.
- C’è in quest’acqua – dicesti guardandomi – l’infanzia
la nostra infanzia che non finisce mai di toccarci
di bagnarci le caviglie, come se dai piedi l’inizio
continuasse ad assalirci e l’atrocità della storia
che vuole scrivere un’evoluzione apparisse per ciò che è
solo un inganno
un’apparenza con cui si cerca di cancellare ogni nostro primo gesto
sempre immaturo e sempre senza scelta. Noi futuri non vediamo domani.
Noi siamo
campati in aria ed erbe di una identica specie siamo sempre
semi che la vita sparge dimentica
di quell’acqua che ci nutre e ci gonfia
mentre ancora accerchia i nostri piedi
i pensieri dell’uomo che non ricorda più il gioco di allora
di quando era bambino e ancora gli rimbalza
fin dentro i più recenti pensieri.
- Uccidere il padre, seppellire le sue ossa.-
Questo ci insegna la vita per dimenticare.
La sua presenza venerata di generazione in generazione dentro l’ assenza
spogliando la vita di un peso che ci affoga ancora
sempre dentro noi stessi
la responsabilità ci indica con il dito teso l’inizio e la sosta
un capro della storia alla volta.
E il silenzio si affaccia
dai capitoli del libro oscurato.
Ha un fascino che il suono di nessuna parola pareggia. Lenta
austera la vita non lenisce le ferite non chiama con garbo
non afferra la moderazione.
“… Non c’è nessuna morte. E’ vero?
- ti chiesi.
- Esiste la paura della morte.
E’ per quella paura che gli uomini ammazzano distruggono
sfregiano disperdono la loro ossessione in sogni meschini.
Eppure è per quella paura che non ci stacchiamo dalla vita, da noi stessi
Una specie di difesa, da un dolore che il corpo non accetta che un poco per volta
mescolando gli elementi in una ricetta che allenti quel dolore che non può
alleviare se non soccombendovi.
-Finiremo così, naturalmente- aggiungesti tu senza guardarmi
mentre ormai ti facevi più lontana
- come un fiore di campo,
come un fiore che dice:
” È già tempo di neve, amico mio,
e le stagioni prossime a finire“.