Il viaggio per l'Italia
Quando il tassì arrivò salutai nonna con un forte abbraccio, a stento trattenevo le rare lacrime che in vita mia ho versato. Volsi l’ultimo sguardo sul Vicolo del sarto e alla libertà, portando via con me un pizzico di fantasia e tanti ricordi.
Il viaggio da Stoccolma a Roma sarebbe durato due giorni e mezzo con due cambi di treno: uno a Copenhagen e l’altro ad Amburgo, perciò mamma aveva prenotato i posti sul vagon-lit, in modo tale che potessimo dormire nelle cuccette. Per il momento il vagone era tutto nostro, più tardi sarebbero salite altre tre persone. Si dormiva in sei in uno spazio così ristretto che a mala pena ci si riusciva a muovere.
Mi sistemai con la solita prepotenza vicino al finestrino, mia sorella non replicò e si mise seduta accanto a me con il broncio. Mamma occupò il posto di fronte a noi, dopo aver sistemato i bagagli.
Non avevamo portato moltissime cose con noi, a parte gli indumenti tutti rigorosamente segnati con una fettuccia su cui c’era un numero, il mio era il numero quaranta, quello di mia sorella trentasette. Su ogni maglietta, gonna e mutanda c’era questo numero per riconoscere l’appartenenza. Questo fatto mi aveva incuriosita e mi domandavo come sarebbe stata la vita in collegio con tante compagne.
Dopo il fischio del capostazione, il treno si avviò lentamente sulle rotaie. Vidi la città scorrere sotto ai miei occhi. Patrizia si addormentò quasi subito, appoggiando la sua testa sulla mia spalla. Ci eravamo alzate pressocché all’alba. Mamma stava controllando i biglietti e chiese se volevo un frutto, al mio diniego si sistemò meglio e chiuse gli occhi anche lei. Io, invece, ero troppo eccitata per dormire. Mi è sempre non tanto arrivare a destinazione, quando il viaggiare, stare seduta comoda al calduccio e, nel contempo, osservare come dal finestrino il panorama cambiava, scatenando i miei pensieri. Mi lasciai trasportare a luoghi, persone e fatti, che si stavano trasferendo nella memoria. Ci vuole un attimo perché il presente appartenga al passato, ma a questo non pensavo.
Ricordai il bacio di Sonny, il mio primo fidanzatino di quindici anni. Un vero vichingo, alto, biondo e ben piazzato, che con dispiacere aveva appreso della mia partenza. Pensai ad Yvonne, Annette, Ingrid, le amiche di sempre; gli appuntamenti al parco; il nostro chiacchierare; lo Chewing gum e la coca cola. I jeans. Ricordai la scuola accanto alla chiesa e le suore tedesche dell’Ordine di Notre Dame; la classe composta da ragazzi multietnici, dato che quella scuola era l’unica cattolica che c’era a Stoccolma a quei tempi. Ricordai le lezioni di inglese e le prime in tedesco che non ebbi tempo di apprendere; la storia, ma soprattutto la lezione di geografia. Mi piaceva quando l’insegnante ci parlava di altri paesi. Sapevo a cantilena tutte le capitali del Sudamerica, i fiumi e i laghi. Pensai, con una fitta al cuore, al pianoforte coperto da un lenzuolo ormai, e alle numerose esercitazioni, le scale, i solfeggi e all’orgoglio di mamma quando suonavo un Walzer di Strauss.
Non so quanto mi resi conto che tutto questo ormai apparteneva ad un capitolo della mia vita che si stava chiudendo. Forse avevamo preceduto i tempi.
I miei pensieri continuavano il loro viaggio a ritroso, fino ad arrivare al punto in cui si può ricordare qualcosa. Arrivai alla tenera età dei quattro anni, quando i ricordi appaiono come una coperta fatta a patchwork. Vidi chiaramente la mamma, bella ed indaffarata, prepararsi per partire per la fiera del nord; vidi papà, avvolto nella nebbia, alto ed elegante, un po’ nervoso; c’era pure Concetta, la nostra bambinaia tutto fare, pettinata alla “Gilda” com’era di moda, più giovane di mamma e sentì nello stomaco un morso di rabbia.
A quei tempi la comunità italiana usava assumere come aiutante di casa ragazze provenienti dai paesini del sud Italia. Secondo la mentalità, queste ragazze erano più affidabili delle svedesi e anche volenterose, abituate alla fatica, un po’ a causa della loro ignoranza (parlavano in dialetto) e un po’ perché essendo fuori dal propri ambiente, erano facilmente “addomesticabili” e capivano meglio le esigenze delle famiglie emigrate. Gli svedesi, in generale, difficilmente erano accolti nella comunità, come se la comunità fosse una casta, o forse era per conservare le tradizioni che gli emigranti avevano portati con sé dall'Italia.
Queste ragazze facevano di tutto: dalle pulizie all’accudire ai minori e lavoravano anche alle bancarelle per le fiere. Tutto in cambio del viaggio pagato, vitto, alloggio e con una paga, che immagino, fosse bassa. A queste ragazze era proibito frequentare gli svedesi per timore che aprissero gli occhi sui loro diritti.
Da noi un bel dì arrivò Concetta. Proveniva dal paese, dove perfino Cristo s’era fermato: Eboli di Battipaglia.