Un mio 'lavoro' di alcuni anni fa:
LA FAVOLA: DA ESOPO AI GIORNI NOSTRI
“Il lupo e l’agnello” , “La cicala e la formica”, “La volpe e l’uva”.
Queste espressioni richiamano subito alla mente delle immagini chiare, perché fanno parte di un background culturale che ci accomuna tutti. E tutti mettiamo in relazione queste espressioni con due nomi: ESOPO e FEDRO.
A ESOPO viene tradizionalmente attribuita l’invenzione della favola. In realtà ESOPO è un personaggio leggendario della letteratura greca arcaica, un po’ come Omero.
Sarebbe vissuto nel VI secolo prima di Cristo, ma il suo merito può essere tutt’al più quello di aver raccolto in forma scritta una serie di favole attinte dalla tradizione orale. Sono brevi racconti in prosa, la cui maggiore caratteristica è avere come protagonisti degli animali.
Questo non ci deve stupire, perché in una società di tipo agricolo il contatto col mondo animale è quotidiano e gli uomini hanno avuto modo di osservare da vicino le caratteristiche dei vari animali, il loro comportamento istintivo che ben si presta a rappresentare le varie tipologie umane e così per esempio la volpe ha finito per incarnare la furbizia, il leone la forza e la prepotenza, la formica l’operosità , il lupo la cattiveria e così via.
Nelle favole Esopiche quindi gli animali hanno lo stesso ruolo delle maschere del teatro latino: rappresentano cioè dei modelli psicologici fissi e ricorrenti.
Un’altra caratteristica di queste favole è la presenza di una morale, cioè di una verità di carattere universale che si può estrarre dal racconto.
La favola esopica esprime il punto di vista delle classi subalterne, al contrario dell’epica che rappresenta il mondo e gli ideali dell’aristocrazia.
E’ la morale del buon senso che riconosce come il debole per sopravvivere debba essere prudente, cercando di non irritare o insospettire i potenti e vivendo nella loro ombra se sono benefici, lontano se sono pericolosi.
FEDRO dichiara esplicitamente di aver attinto alle favole di ESOPO.
FEDRO è un liberto, probabilmente di origine tracia, che vive a Roma nel 1° secolo avanti Cristo.
La sua non è stata semplicemente un’opera di traduzione o imitazione. FEDRO ambisce a fare della letteratura. Infatti scrive in versi, mentre le favole esopiche erano in prosa e in questo senso ha dato inizio ad un nuovo genere letterario, appunto la favola esopica in versi.
La forma metrica è il senario giambico, che è un genere popolare; la lingua è il latino colloquiale della classe colta e lo stile è breve e chiaro, senza ornamenti retorici.
Personalmente trovo notevole questa capacità di concentrare in pochi versi un racconto, creando immagini così vive.
Con la sua mentalità di ex schiavo e liberto costretto a vivere umilmente, FEDRO ci presenta un mondo in apparenza variopinto ed allegro, ma da cui traspaiono l’ingiustizia e la sopraffazione.
Il contrasto fra i potenti e gli umili si esprime spesso in punte polemiche. La satira tuttavia è fine a se stessa; il sentimento prevalente è u n rassegnato pessimismo. La violenza del forte sul debole sembra un’ineluttabile legge di natura che si applica anche nella società umana.
Pur essendo stato ignorato dagli autori suoi contemporanei, perché ritenevano quello della favola un genere poco colto, FEDRO ha avuto da subito un certo successo scolastico, in quanto il suo stile semplice e breve si è prestato all’insegnamento del Latino. La sua fortuna scolastica si è accresciuta durante il Medio Evo, ma possiamo dire che FEDRO ha avuto estimatori e imitatori anche in epoche più recenti, come LA FONTAINE e TRILUSSA.
LA FONTAINE è un letterato francese del ‘600 che deve la sua fama proprio all’aver ripreso il tema della favola, più che al resto delle sue opere. Egli scrisse ben 245 favole in versi dove ancora troviamo come protagonisti gli animali, ma dove il bisogno di moraleggiare è superato dal piacere di “raccontare per il raccontare”, con un gusto del meraviglioso o, appunto, del favoloso.
Le favole di LA FONTAINE condensano un mondo lirico, teatrale e narrativo insieme.
Gli animali parlano sullo sfondo variopinto della natura, mostrando le loro caratteristiche che rispecchiano quelle dell’uomo e sono come personaggi di una commedia universale che può avere tanti significati e nessuno, come la vita stessa.
E poi, a cavallo tra ‘800 e ‘900, abbiamo qui in Italia Carlo Alberto Salustri, in arte TRILUSSA, che scrive in dialetto romanesco. Il suo è un dialetto imborghesito e italianizzato che non ha bisogno del vocabolario come quello dal Belli (poeta del folklore romano per eccellenza). Il romanesco di TRILUSSA è ridotto ad una patina leggerissima, giusto per dare “colore” ai versi e renderli più gustosi.
Il mondo che lui dipinge è la Roma piccolo borghese di fine secolo, con le sue baruffe politiche che diventano oggetto di una satira arguta. Ma quella di TRILUSSA è una satira non ideologica che gli permetterà di passare indenne il ventennio fascista.
L’osservazione delle vicende umane che sono fatte di violenza, astuzia, calcolo, egoismo conduce inevitabilmente TRILUSSA alla favola, alla parabola degli animali parlanti.
Anche le favole di TRILUSSA hanno una morale, ma il suo massimo intento non è questo e non è neppure il gusto del “raccontare”, come nel caso di LA FONTAINE. Si percepisce il sorriso dell’autore dietro ai suoi versi; egli si è divertito per primo e desidera che anche il lettore si diverta.
E così TRILUSSA rivisita le favole di FEDRO e spesso le modifica. I suoi versi sono pieni di lupi pentiti, volpi antimilitariste, cani moralisti e somari filosofi.
TRILUSSA osserva il suo mondo con sottile ironia e scetticismo, con un distacco sorridente e quasi compiaciuto. Alcuni lo hanno accusato di qualunquismo, ma personalmente penso che più che disimpegno politico, quello di TRILUSSA sia un giustificato pessimismo nei riguardi della natura umana.
Ho pensato che sarebbe stato interessante leggere alcune favole nelle tre versioni: di FEDRO, di LA FONTAINE e di TRILUSSA.
La prima che ho scelto è “Il lupo e l’agnello” che tutti conosciamo.
Lo schema è quello classico del conflitto fra due personaggi: il dominatore e la vittima, il prepotente che ha sempre la meglio e l’umile che soccombe alla legge del più forte. Leggiamo in FEDRO:
Ad un solo rivo vennero, l’agnello
e il lupo, spinti dalla sete. In alto
stava il lupo. Molto in basso l’agnello
Quand’ecco che al rapace si destò
la gola maledetta e trovò da litigare.
“Io bevo e tu mi intorpidisci l’acqua” disse
E quel lanuto timido:”Ti prego,
non posso fare ciò che tu lamenti,
perché l’acqua scende da te ai miei sorsi”.
La verità lo respinge, ha la sua forza
“Sei mesi or sono hai sparlato di me”.
E l’agnello risponde: “Io? Non ero nato”
“Ma tuo padre perdio sparlò di me”
E piglia e strappa, eppure aveva torto.
Abbiamo anche la morale:
Fu scritto per chi schiaccia l’innocente
e la ragione se l’inventa lui.
Ecco, quando la morale segue il racconto si chiama EPIMITIO ( = aggiunto sopra); nel racconto di LA FONTAINE invece troviamo la morale all’inizio. In questa caso si chiama PROMITIO. Leggiamo:
La favola che segue è una lezione
che il forte ha sempre la miglior ragione.
Un dì nell’acqua chiara di un ruscello
bevea cheto un agnello,
quand’ecco sbuca un lupo maledetto
che non mangiava forse da tre dì,
che pien di rabbia grida, “Echi ti ha detto
d’intorbidar la fonte mia così?
Aspetta temerario!” “Maestà”
a lui rispose il povero innocente,
“s’ella guarda, di subito vedrà
ch’io mi bagno di sotto la sorgente
d’un tratto, e che non posso l’acque chiare
della regal sua fonte intorbidare”.
“Io dico che l’intorbidi” arrabbiato
risponde il lupo digrignando i denti,
“e già l’anno passato hai sparlato di me”.
“Non si può dire perché non ero nato,
Ancora io succhio la mammella, o Sire”.
“Ebbene sarà stato un tuo fratello”
“E come, Maestà?
Non ho fratelli, il giuro in verità”.
“Queste son ciarle. E’ sempre uno di voi
che mi fa sfregio, è un pezzo che lo so.
Di voi, dei vostri cani e dei pastori
vendetta piglierò”.
Così dicendo, in mezzo alla foresta
portato il meschinello,
senza processo fecegli la festa.
La prima differenza che salta all’occhio naturalmente è nella lunghezza dei due brani; FEDRO infatti usa un linguaggio molto più conciso e incalzante, LA FONTAINE più descrittivo.
La versione di TRILUSSA parte dalla stessa situazione, ma poi ha dei risvolti diversi. Infatti si intitola:
L’agnello infurbito
Un lupo che beveva in un ruscello
vidde dall’antra parte de la riva,
l’immancabbile agnello.
“Perché nun venghi qui”? je chiese er lupo.
“L’acqua in quer punto è torbida e cattiva
e un porco ce fa spesso er semicupo.
Da me che nun ce bazzica er bestiame,
er ruscelletto è limpido e pulito…”
L’agnello disse. “ Accetterò l’invito
quando avrò sete e tu nun avrai fame”.
TRILUSSA ha rielaborato il testo della favola ed effettivamente notiamo che è quello che fa con la maggior parte dei testi. Nella sua versione spesso l’umile si riscatta… o con un moto di spirito o capovolgendo addirittura la situazione. Prendiamo ad esempio l’altrettanto famosa favola de:
“La cicala e la formica”.
LA FONTAINE rispetta il testo antico e così leggiamo:
La cicala che imprudente
tutta estate al sol cantò,
provveduta di niente
nell’inverno si trovò,
senza più un granello e senza
una mosca in la credenza.
Affamata e piagnolosa
va a cercar della formica
e le chiede qualche cosa
qualche cosa in cortesia,
per poter fino alla prossima
primavera tirar via:
promettendo per l’agosto
in coscienza d’animale
interesse e capitale,
La formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto.
“Che hai tu fatto fino a ieri”?
“Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che cantare
tutto il tempo”. “Brava, ho gusto;
balla adesso, se ti pare”.
Notiamo invece la versione di TRILUSSA che, tanto per cominciare, intitola la sua favola:
La cecala rivoluzzionaria
Una cecala rivoluzzionaria
diceva alla formica:
“Povera proletaria!
Schiatti da la fatica
senza pensà che un giorno finirai
sott’a le zampe de la borghesia
che a le formiche nun ce guarda mai.
Ma che lavori a fa’, compagna mia.
Pianta er padrone e sciopera
prima ch’arivi un piede propotente
che te voja fregà la mano d’opera!
Tu guarda a me: d’inverno nun fo gnente,
e ammalappena sento li calori
me sdraio en faccia ar sole e canto
l’Inno de li Lavoratori!
Naturalmente, TRILUSSA non vuol capovolgere la morale e sostenere che la pigrizia sia migliore dell’operosità. Quello che lui ha fatto è rielaborare un testo classico e applicarlo ad una situazione diversa. Alcuni al suo tempo non facevano nulla, ma pretendevano di rappresentare la classe operaia (forse accade anche oggi).
Quello che TRILUSSA rappresenta è quindi un mondo in cui l’umile ha imparato la lezione e si è “fatto furbo”, per così dire. Il quadro che ne esce è quello di una povera umanità che si arrabatta nella vita, senza alti valori e senza ideali. E’ un umorismo venato di malinconia.
Così, leggiamo per esempio:
La gratitudine
Mentre magnavo un pollo, er cane e er gatto
pareva ch’aspettassero la mossa
dell’ossa che cascavano ner piatto.
E io, da bon padrone.
facevo la porzione,
a ognuno la metà:
un po’ per uno, senza
particolarità.
Appena er piatto mio restò pulito
er gatto se squajò. Dico: “E che fai”?
“Eh”, dice “me ne vado, capirai,
ho visto ch’hai finito…”
Er cane, invece, me sartava ar collo
riconoscente come li cristiani
e me leccava come un francobollo “
Oh! bravo!” dissi “Armeno tu rimani”!
Lui me rispose: “Sì, perché domani
magnerai certamente un antro pollo”.
E così, seguendo il filo conduttore della favola siamo passati da FEDRO a LA FONTAINE, a TRILUSSA, in un percorso che evidenzia come la favola esopica sia qualcosa che l’uomo ha interiorizzato, che ormai fa parte dell’immaginario collettivo e ci ricorda una stagione della vita in cui tutto sembrava meraviglioso e anche gli animali parlavano.