Vi posto l'incipit…. buona lettura
Giugno 1970
Betta
gettò
lo sguardo intorno e abbracciò la sua casa, sperando di riuscire a
portarsela dentro.
Ogni anno la stessa
doppia sensazione: di strappo intimo e di sorda nostalgia, alla sola
idea di lasciare la città, la vita scandita dai ritmi rassicuranti
della quotidianità, le confidenze serali con Elena, tra ridere e
soffrire di piccole pene, il dolce parlare. Ed ogni anno più vitale:
tutto le sarebbe mancato moltissimo, e tre mesi sarebbero stati
eterni. Aveva anche provato a dirlo, adducendo scuse e desideri,
sortendo una certa comprensione da parte di suo padre. Ma sua madre
era ferrea e irremovibile: appena ritirata la pagella di giugno
faceva in modo che fosse già tutto pronto; la macchina stipata, le
lenzuola sui mobili e le poltrone, il frigidaire svuotato e anche la
“donna”, Marilena, in tenuta estiva con quei ridicoli vestitini
in crèpes e sotto le calze corte di cotone bianche con i sandali,
manco si andasse al mare. Magari. Invece a Villapieve a masticare
noia e a struggersi di spiate nascoste dietro la siepe. Di nuovo,
anche quest’anno.
L’attesa del cenno
che tutto era pronto durava secoli. Le ragazze, già vestite e sedute
sul divanetto dell’ingresso, rigido e austero da costringerle ad
una posa innaturale, sbuffanti, con lo sguardo gonfio di noia, si
sfuggivano con gli occhi per evitare di litigare: Clara, la minore,
nell’ansia di compiacere la madre avrebbe fatto qualsiasi cosa;
Betta tutt’altro. Si guardò le gambe, le calzette nelle ballerine
con il cinghietto e il posoir, allungò la caviglia sottile e la
roteò, immaginando il piede calzato dei leggeri sandali della madre
con i tacchi che rendevano sinuosa la camminata e attraente lo
scampanio della gonna tanto da far voltare sguardi. Sbuffò, per
l’ennesima volta.
- Andiamo, bimbe.
Bimbe.
Odiava quel “bimbe”, al pari del trattamento grottesco da
governante teutonica che sua
madre ostentava, alternato ad atteggiamenti di complicità fittizia,
di infantilismo finanche ridicolo.
Aveva
sedici anni: di sogni, di desideri, di
attese e di inquietudini, ma chi lo aveva capito, in quella casa.
Mamma
aprì la porta a vetri della bussola e aspettò
che fossero tutte sul pianerottolo prima di chiudere a più mandate.
Papà sarebbe arrivato la sera tardi a Villapieve, felice come non
mai di evitarsi il viaggio quotidiano fino a Torino dall’alta Valle
Maira, dove da tempo seguiva i lavori della centrale, e gli sembrava
in capo al mondo.
Mamma si ostinava a
guidare nonostante il carico oltremodo scomodo che spesso impediva la
vista dal lunotto posteriore; si caricava la vecchia 750
all’inverosimile quasi che Torino fosse agli antipodi e non fosse
possibile nel corso dell’estate tornarvi a recuperare alcunché.
Anche il portapacchi
era stato stipato e legato con corde elastiche a più rimbalzi,
coperto di nylon casomai piovesse, borse tra le gambe e attaccapanni
con le camicie di seta appesi alle manigliette sui finestrini, da non
poter nemmeno guardar fuori Corso Duca che si allontanava, nella
calura già opprimente di prima mattina. Odiava questo rito, e
sfilavano i platani e le macchie di luce tra le foglie, mamma con gli
occhiali da sole era ancora più bella e poi sorridente così, come
raramente si vedeva in città, sembrava irradiare voglia di vivere.
- Marilena hai preso la
borsa che avevo messo sotto il mobile del telefono quella con le
pedule dell’ingegnere?
Puntualmente ogni anno
si tornava indietro a prendere qualcosa dimenticato. E ricominciava
l’agonia dell’attesa. Poi mamma brontolava mezz’ora, è tardi,
guarda che ora abbiamo fatto.
Ma cosa ci troverà a
Villapieve, non me lo spiego.
Il lungo muro di cinta,
baluardo a ciò che considerava vita vera, fortunatamente ogni anno
era più basso; i sogni e i sospiri protesi in alto, oltre le saette
di ferro smaltato di verde, come braccia imploranti: se almeno la
realtà l’avesse presa su come una bambina inquieta e l’avesse
consolata davvero con un guizzo di nuovo…
D ’altra parte il
cancello non aveva serratura e lì intorno ci si conosceva tutti.
Un’altra estate
sprecata, pensò, un’altra estate da dimenticare. Invece non
l’avrebbe più estirpata dal cuore, perché quell’estate avrebbe
cambiato il senso della sua stessa vita. Già Torino era palazzoni di
periferia, e il sole sempre più antipatico le fece chiudere gli
occhi, nella vana speranza di un lungo sonno. Fino a Villapieve.
*************
Villapieve,
giugno
2007
Strano
aprire la cancellata, il prato è già ingiallito; il
verde della recinzione divorato da ruggine decennale: nessuno che
spalanca la porta e accoglie. Il caldo di fine giugno a vedersi
sembra freddo. Niente ha il sapore di sempre; se è pur vero che
tutto ha una fine, è triste ogni volta constatarlo e confermarsene
l’ineluttabilità.
La porta tuttavia non è
chiusa a chiave; appena entra rumore di passi e acciottolio di
stoviglie.
- Betta, tesoro, ti
aspettavo per pranzo.
Le viene da abbracciare
Gisa quasi con disperazione, come il giorno del funerale, ultimo
appiglio alle sue radici, al suo passato, alla sua essenza più
intima. (…)