Agata guardava le crepe dei muri nel vecchio convento che la ospitava, da giorni sedeva su una sedia, volgendo le spalle al mondo.
Gli altri ospiti si chiedevano cosa si aspettasse di vedere.
Non sapevano che Agata era nata prendendo la strada secondaria: sua madre era stata tre giorni in sala travaglio, alternando preghiere e bestemmie, e quando lei nacque si trovò a cullare un mostriciattolo, commossa nella sua unica volta.
Scoperto che la bimba non avrebbe mai potuto parlare né sentire, la portò in un orfanotrofio. Troppi sarebbero stati gli impegni e le spese per curarla.
Agata varcò, dunque, la soglia dell'istituto in braccio alla madre e ci rimase fino al compimento dei quindici anni, quando una coppia di campagnoli benestanti decise di adottarla per farne una servitrice.
Agata era soltanto un accenno di donna, che colpa aveva se il passo goffo la faceva paragonare ad una papera? Le mani erano grandi e le gambe agili e forti di chi sa resistere alla fatica.
A casa dei padroni era obbligata a darsi un gran daffare, alzandosi alle cinque della mattina per governare le bestie e poi iniziare i lavori di casa. Doveva servire, sempre servire. E così scorrevano tutti i giorni che Iddio mandava in terra.
La ragazza non aveva mai indossato un vestito nuovo, quelli che portava erano abiti smessi di altri e le scarpe erano sempre più grosse di mezza misura, ma l'astuzia contadina ben presto le insegnò ad indossare spesse calze di lana e ad infilare del cotone alla punta. Per governare le bestie non è necessario essere eleganti.
Agata aveva però dei bei capelli, che i padroni costringevano a nascondere sotto una cuffia. Motivi d'igiene, dicevano. Ma la sera Agata li scioglieva e li spazzolava fino a renderli seta. Aveva occhi d'un colore turchese stupendo, Agata. Da perdercisi dentro.
Un giorno arrivò alla fattoria un ragazzo.
Non era niente di speciale, ma ad Agata sembrò bellissimo. Stava per diventare donna, nonostante il suo isolamento.
Il garzone aveva qualche anno di più di lei ed era di quei tipi che prendono la vita per quella che è, senza porsi tante domande o problemi. Uno vissuto, insomma, come si usa dire in gergo popolare.
Alla vista della ragazza pensò che, poverina, fosse davvero brutta. Però, nonostante l'apparente umiltà della figura, aveva uno sguardo fiero e pareva sfidarlo, quella fierezza. E lui era uno che raccoglieva le sfide. Sempre.
Così un mattino mentre Agata era nella stalla a mungere le mucche, il ragazzo entrò e chiuse la porta.
Lei non poté udire i suoi passi né strillare quando lui le fu addosso.
L'unica cosa che sentì fu un dolore fitto al ventre e il sangue che le colava lungo le gambe.
Finita la battaglia il ragazzo si tirò su i pantaloni soddisfatto, Agata guardava il vuoto.
Rimase in quella posizione per un tempo indeterminato, come se la cosa non la riguardasse affatto.
Si era infranto un sogno, l'unico che si era permessa di avere, e si domandava dove avesse visto tanta bellezza in quel ragazzo.
Da quel momento Agata cercò di evitarlo, ma lui riuscì ugualmente a trovarla.
Ci furono altre violenze scandite dal silenzio di Agata a lacerare il vuoto. Gridava forte, ma nessuno poteva sentirla, nemmeno il padreterno, perché il suo grido era muto.
L' anima le cadde a brandelli sulla ferita, come a voler coprire la vergogna. Stette male, vomitò sporcizia, ma non versò mai una lacrima. No, le sue lacrime non dovevano infangarsi. Erano lacrime pulite, e ad occhi asciutti tenne per sé il segreto, perché dopo qualche mese il segreto crebbe nel suo ventre e le fatiche domestiche pesarono sempre di più, andò avanti con una forza sconosciuta, e sconosciuto era anche il dolore atroce che una notte si fece più intenso, portandola barcollante alla stalla dove si coricò su paglia e fieno.
Sapeva come partorivano gli animali.
Passarono altre ore di dolore che sopportò nel suo silenzio finché all'alba, quasi stremata, sentì qualcosa scenderle tra le gambe.
Un esserino che apriva e chiudeva la bocca, sembrava fosse arrabbiato con il mondo intero, chiusi com'erano i suoi piccoli pugni, tutto sporco di sangue. Era nato il suo bambino prepotente. Agata pulì la creatura con la sottana e con dell'acqua calda e gli offrì il seno, al quale il bimbo si attaccò avidamente.
Conscia delle nuove responsabilità, prese coraggio e andò a confessare il peccato ai padroni.
Fu cacciata di casa, da una casa che non era mai stata sua, e bussò dunque alla porta del convento dove trovò ospitalità.
La vita nel convento era dura ma rassicurante, un piatto di minestra ed un letto concedevano sicuro conforto e il bambino divenne la mascotte delle suore, crescendo sano e forte.
Cosa poteva chiedere di più Agata alla vita? lei che era stata ripudiata da tutti, nata senza conoscere il suono, lei dalla bocca cucita di fronte alla gioia e al dolore, ora era ricompensata da un figlio a valere tutte le pene patite.
Fu pronta a tutto, pur di dare al figlio la dignità e il rispetto che a lei erano stati negati.
Francesco, infatti, riuscì a studiare, grazie al contributo del convento e alle preghiere della madre.
La pietà del Signore, a volte, si materializza sotto forme strane.
Il figlio di Agata si laureò in giurisprudenza all'Università Cattolica di Roma e da lì ad una brillante carriera il passo fu breve. Se ne emigrò in America dove lavorò in uno studio di diritto internazionale.
L' Oceano si pose tra lei ed il figlio, ma giammai ne fu tanto felice.
Ora Agata è il volto umano del tempo che si prende gli interessi della gioventù. Anche per Agata giunsero i giorni a guardare le crepe dei muri di un convento.
Nessuno avrebbe mai saputo che lei poteva sentire il brusio delle onde dell'Oceano e vedere oltre l'infinito del mare, lì, e che era in attesa del ritorno del suo amatissimo Francesco, frutto della violenza che un giorno si placò nel suo ventre.
Carmen