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UtenteMessaggio

22:26
11 dicembre 2009


admin

Amministratore

messaggi3520

"Pensiero" di Vobo

Nel mio cuore

Nel mio cuore c'è un pagliaccio
con il viso truccato da poco.
Nel mio cuore c'è un bambino
che corre felice in un prato.
Il pagliaccio piange la sua solitudine,
mentre il bambino ride di lui.

Un aquilone bianco
vola verso il sole,
porta con sé i miei sogni,
porta con sé la mia vita.

Nel mio cuore c'è un pagliaccio,
nel mio cuore c'è un bambino,
ora il pagliaccio ride,
per far ridere chi applaude,
mentre il bambino piange …
i sogni persi per sempre.

dmk

10:25
12 dicembre 2009


Rose

Ospite

Ciao, VOBO. Smile Grazie per i 'pensieri' che ci mandi ogni tanto e che inducono sempre a riflettere. Nel cuore dell'uomo si celano molti sentimenti e l'uomo può essere, in alternanza, un bambino ingenuo e sognatore o un adulto deluso che nasconde l'amarezza dietro una maschera da clown. Questi versi sono veri e condivisibili. Grazie. Kiss

19:37
12 dicembre 2009


admin

Amministratore

messaggi3520

Sono d' accordo con Rose.

La contrapposizione pagliaccio – bambino colpisce per quello che vuole indicare.

Un "pensiero" dove prevale uno stato d' animo sofferente, mi pare, nel piangere i sogni perduti. Grazie, VoboSmile

dmk

20:37
12 dicembre 2009


sandra

Ospite

Non c'è nulla di più triste di un pagliaccio triste.

Ma il bambino che c'è in noi non smette di sognare. Smile

Ciao, Voooboooo! Smile

22:18
13 dicembre 2009


Manfredi

Ospite

sarà, Sandra,

sarà vero che il bambino dentro di noi (fanciullino pascoliano?) non smette di sognare,

ma permettimi d' avere qualche sostanziale dubbio in proposito.

a un certo punto non si trova più nessun aquilone e quelli che hai fatto volare, si sono persi chissà dove.

non per giocare a fare il pessimista, ma per mero realismo. sorry.

22:41
13 dicembre 2009


fernirosso

Ospite

ho scritto un pezzo, tempo fa, relativo al vuoto e, dentro, cito anche l'infanzia. Lo riporto qui da cartesensibili in cui l'ho pubblicato.Forse riesco a spiegarmi meglio.

Il vuoto

Mi chiedi dell’ustione e ti rispondo direttamente. Chi brucia non ha molte parole e quelle che ha sono secche, addirittura aride, forse anche incomprensibili, si confondono, si fondono con il corpo.

“Mi corico dentro la morte. La mia notte è un pozzo profondissimo. Niente sogni. Niente segni. Un buio senza sosta. Mi alzo per volontà di (r)esistere. Non ho luoghi dentro me, solo deserto, senza confini. Anche il cielo, dentro la testa, è senza stelle. In quella claustrofobia, una fitta sabbia, un corpo nel mio mi preme il respiro. Vivo, vuole che anche io viva. Mi conficca il giorno, una brace nella carne, un battito e un fuoco in gola. Estirpa il buio, lo interra, lo frantuma, lo rende friabile, fertile. Di pane il corpo e d’acqua la voce, commestibilità di un nuovo giorno. E  torna a mangiarmi la vita, a scorrermi dentro come da un secchio calato nell’origine, come se anch’io, dopo l’incendio dentro il buio della notte, fossi tornata intera, e in terra un’alba.”

Questa apertura è una crepa, una scarna sintesi di ciò che Saenz ha interrato in me dalla sua vivissima notte. Cito il mio incontro con Jaime Saenz anche in apertura di Migratorie, la mia prima raccolta, di segni. Indico il dis-velamento della “mia”vita abbracciando la sua poesia. Nell’oscuro di un respiro, che è fuoco, vivo l’oscuro che abita il parodosso rincorso nella e dalla sua parola, l’inganno, quasi, che cela il percorso, abbandonato lungo la vita e lungo la morte, che non è un atto finale e conclusivo, è il ciglio della stessa strada, gli affanni e le passioni in cui si resta immersi,in  una specie di alcolismo, la nostra narcosi  dei sensi, di cui ci ammaliamo credendoci normali e ciechi. La distanza è la misura della separazione tra noi e la vita. Percorrerla, tra il corpo e la sua notte, è come sentire depositare il mondo dentro la morte. Non è recuperare tempo, non è tornare all’infanzia. Soli, nel buio, in quel tracciato senza mappe, attraversando quel silenzio di sogni e immagini, il giorno occultato preme finalmente nel vivo e nel corpo della notte rinasce l’altro, il corpo abitato, i quartieri della distanza senza misura. Così dentro, da non poter essere visto, da non poter essere raggiunto, se non per un terremoto. Nella terra della frana si fessura la vista e, finalmente, riusciamo a guardarci, come da un luogo all’altro. “Io sono il corpo che ti abita, e sono qui, nell’oscurità, e ti dolgo, e ti vivo, e ti muoio. / Ma non sono il tuo corpo. Io sono la notte“. (epigrafe iniziale di Migratorie non sono le vie degli uccelli- Edizioni Il Ponte del sale-2009).

Quando si è piccoli, ragazzi, e anche nell’età adulta, ci si spinge lontano, anche molto lontano, si pratica la distanza, per cercare qualcosa che si crede viva lì, in quella distanza tutta terrestre che, poi si capisce, non è nemmeno fisica. Ma questo avviene dopo, più tardi, spesso molto più tardi. Talvolta però un intoppo, qualcosa che ha frenato la corsa e ha franato il mondo, il corpo, o entrambi, la percezione della “vicinanza della distanza”, dell’intimità  e della “prossimità”con essa, si fa tangibile, sveglia un senso nuovo. In quella “prossimità” con la frana si sente in sé la distanza, e ha, questa volta, l’ampiezza impercorribile della notte che abbiamo dentro. E’ un corpo-mondo mai visto prima e impraticabile con la vista. Gli occhi sono un battello e ci portano nella profondità, che diviene es-tensione. Si naviga il buio. Nel buio si toccano gli sbandamenti, con tutto il corpo, e ci si scortica, spesso fino a perdere la precedente sostanza, fino a perdere il sé antico per incappare in una primitività quasi animale. “Il corpo”, l’altra notte,  vive a ridosso di quelle scabre ossa che bruciano il  midollo come magma ma. E’il vuoto la parola densa, impenetrabile proprio perché così denso. Lì, nulla è separato da nulla. In Percorrere questa distanza, Saenz scrive :“Nelle profondità del mondo esistono spazi grandissimi / – un vuoto presieduto dal vuoto, / che è causa ed origine del terrore primordiale, del pensiero e dell’eco. / Esistono profondità inimmaginabili, concavità per il cui fascino, per il cui incanto, / sicuramente si resterebbe morti. In Nessuno ama aggiunge: “Nessuno ama e sono le cose che amano, / quando guardo il mondo e i venti, suntuoso batte il mio / cuore nell’angoscia / vedo gli esseri soli e straniati dal mondo, esploro/e arrischio per loro sul nascere/e non amano e non vogliono restare, transitano ed io sono / il loro unico amico. / Fin dalla solitudine le cose mi amano…”.Non ci sono tempi lontani, o morti, nella vita, tutto è, vivo persino nella morte. Migrare, nella notte, è acce(n)dere nel buio del corpo una miccia, dal corpo della morte al dentro della vita, il centro fuori asse del labirinto che brucia e ci abilita a vivere, toccare, anche se duole, la costola e il ventre dell’ atroce cieco minotauro, quel mostro cosmogonico che ci mastica in continuo e non finisce mai di sacrificare il silenzio, il mistero intatto di un corpo dentro il nostro e che, stranamente, ci troviamo addosso come un “abito”tessuto.

08:27
14 dicembre 2009


sandra

Ospite

Ferni, il tuo scritto mi ha annientata. Cry

Rispondendo a Manfred, credo che il bambino che c'è in noi rappresenti non solo il sogno, ma anche la speranza, l'attaccamento alla vita che ci fa persevevrare e combattere fino alla fine. Malgrado le circostanze. Contro ogni ragionevolezza.

Questo può convivere con l'amarezza ed il senso di frustrazione e inutilità, come dice  Vobo nella sua poesia. A volte prevale un sentimento, a volte l'altro.

Buon inizio di settimana a tutti. Kiss

14:29
14 dicembre 2009


admin

Amministratore

messaggi3520

Buon inizio settimana a te, Sandra, e a tutti!Laugh

Ferni, bel "pezzo" questo che ha annientato Sandra!Wink magari un pochino complessoSmile, ma senza dubbio un percorso di riflessioni che aprono a diverse modalità di pensiero, a un porsi nuovo…

Jaime Saenz

Bellissimo: "Io sono il corpo che ti abita, e sono qui, nell'oscurità, e ti dolgo, e ti vivo, e ti muoio. / Ma non sono il tuo corpo. Io sono la notte".

da "Le tenebre" 

Stare dei morti 

Perché nulla così oscuro come l'oscurità dei morti. 

Nulla così vero, nulla così umanamente umano come la carne dei morti. 

Nessun odore così oscuro come l'odore dei morti; nessuna contemplazione come la   

                                                                                             contemplazione dei morti. 

Nessun silenzio come il silenzio dei morti; nessun altro silenzio si lascia ascoltare in  

                                                                                                                         silenzio. 

Nulla come l'immobilità; nulla come la forza espressiva che emana dai morti. 

Per questo gli uomini amanti delle tenebre,  

scrutando lo stare dei morti trovano il cammino sicuro. 

Nell'odore e nella forma, nel peso, nella densità. Nel tatto e nell'udito – l'oggetto non si  

                                                                                                                              guarda. 

Ciò che si guarda è il guardare che si sta guardando; e così il guardare dei morti, che  

                                                                                               consiste nel non guardare. 

E' buio. 

E proprio per questo non si guarda, né si tocca, né si odora, né si ascolta 

nel buio, 

tutto succede di colpo, in una volta sola. 

dmk

14:39
14 dicembre 2009


admin

Amministratore

messaggi3520

Cenni biografici

Jaime Saenz (Bolivia, La Paz 1921-1986), è una delle grandi voci, poetiche e narrative, della Bolivia andina: poeta maledetto, bevitore, asceta, Saenz ha coltivato la sua poesia lontano dai circoli letterari ufficiali e vicino, immerso, nei bassifondi della sua città, La Paz, marginale e universale, buia e splendente "della sua incorruttibile bellezza", città che rappresenta il cuore della sua esperienza letteraria e umana.

Voce straordinaria della moderna letteratura latinoamericana, Saenz illustra nei suoi neri fiumi di parole, ritmati e sfiniti senza sosta, in un verso che si fa lungo fino alla prosa lucida e ripetitiva, fino a una prosa che si contorce e si riprende continuamente su se stessa, l'esperienza reale dell'essere umano di fronte al mistero della morte e dell'oscurità in cui è costretto a vivere questa morte.

"Il linguaggio di Saenz, apparentemente labirintico, è solo una faccia della medaglia. Il linguaggio è intimamente partecipe degli orrori che la poesia è costretta ad attraversare per raggiungere ciò che Saenz chiama ‘giubilo': una esperienza – forse una rivelazione – del senso del mondo, terribile e sublime nello stesso tempo." (tratto da "Cinque poeti boliviani", in "Poesia" n. 131)

Fu anche autore di narrativa:

Il suo romanzo, Felipe Delgado, è considerato il capolavoro della narrativa boliviana.

E' la minuziosa e sconcertante rappresentazione di un altro mondo. Un mondo in cui i rapporti abituali sono capovolti, in cui cessano di avere vigore le normali relazioni tra gli uomini e le cose, e ove das Unheimliche, ciò che è perturbante, come direbbe Freud, è di casa. 

Ai quattromila metri di altitudine dell'Altipiano boliviano, nella metropoli del mondo piú remota dal mare – la città di La Paz, dove la luce accecante non è che la finzione del buio piú profondo – batte il cuore del protagonista, animato dal motto attribuito a Cristoforo Colombo: "È necessario navigare, vivere non è necessario". 

Sull'onda di questo paradosso – "tanto cuore per cosí poco mare" – e in compagnia di personaggi che sembrano estratti da un campionario di Borges, vive, ama, sogna, scrive, soffre, ride, beve, festeggia e sbeffeggia il dono della propria solitudine, e infine tenta di "strapparsi il corpo" Felipe Delgado…

E invita a "navigare" con lui e perfino contro di lui, purché il peso della necessità scompaia e la possibilità di realizzare una vita autentica si riveli nell'accadere – ebbro, delirante, esorbitante, gratuito come un atto di pura dépense – di un istante di "giubilo".

dmk

15:26
14 dicembre 2009


fernirosso

Ospite

grazie Daniela.Saenz è uno degli autori che preferisco e torno a leggere spesso. Cambia in-seguendo la nostra notte.

Annientata Sandra? Non era nelle mie previsioni, né nei miei obiettivi.Spero non sia tutta negativo l'effetto prodotto dalla lettura. ferni



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