ho scritto un pezzo, tempo fa, relativo al vuoto e, dentro, cito anche l'infanzia. Lo riporto qui da cartesensibili in cui l'ho pubblicato.Forse riesco a spiegarmi meglio.
Il vuoto
Mi chiedi dell’ustione e ti rispondo direttamente. Chi brucia non ha molte parole e quelle che ha sono secche, addirittura aride, forse anche incomprensibili, si confondono, si fondono con il corpo.
“Mi corico dentro la morte. La mia notte è un pozzo profondissimo. Niente sogni. Niente segni. Un buio senza sosta. Mi alzo per volontà di (r)esistere. Non ho luoghi dentro me, solo deserto, senza confini. Anche il cielo, dentro la testa, è senza stelle. In quella claustrofobia, una fitta sabbia, un corpo nel mio mi preme il respiro. Vivo, vuole che anche io viva. Mi conficca il giorno, una brace nella carne, un battito e un fuoco in gola. Estirpa il buio, lo interra, lo frantuma, lo rende friabile, fertile. Di pane il corpo e d’acqua la voce, commestibilità di un nuovo giorno. E torna a mangiarmi la vita, a scorrermi dentro come da un secchio calato nell’origine, come se anch’io, dopo l’incendio dentro il buio della notte, fossi tornata intera, e in terra un’alba.”
Questa apertura è una crepa, una scarna sintesi di ciò che Saenz ha interrato in me dalla sua vivissima notte. Cito il mio incontro con Jaime Saenz anche in apertura di Migratorie, la mia prima raccolta, di segni. Indico il dis-velamento della “mia”vita abbracciando la sua poesia. Nell’oscuro di un respiro, che è fuoco, vivo l’oscuro che abita il parodosso rincorso nella e dalla sua parola, l’inganno, quasi, che cela il percorso, abbandonato lungo la vita e lungo la morte, che non è un atto finale e conclusivo, è il ciglio della stessa strada, gli affanni e le passioni in cui si resta immersi,in una specie di alcolismo, la nostra narcosi dei sensi, di cui ci ammaliamo credendoci normali e ciechi. La distanza è la misura della separazione tra noi e la vita. Percorrerla, tra il corpo e la sua notte, è come sentire depositare il mondo dentro la morte. Non è recuperare tempo, non è tornare all’infanzia. Soli, nel buio, in quel tracciato senza mappe, attraversando quel silenzio di sogni e immagini, il giorno occultato preme finalmente nel vivo e nel corpo della notte rinasce l’altro, il corpo abitato, i quartieri della distanza senza misura. Così dentro, da non poter essere visto, da non poter essere raggiunto, se non per un terremoto. Nella terra della frana si fessura la vista e, finalmente, riusciamo a guardarci, come da un luogo all’altro. “Io sono il corpo che ti abita, e sono qui, nell’oscurità, e ti dolgo, e ti vivo, e ti muoio. / Ma non sono il tuo corpo. Io sono la notte“. (epigrafe iniziale di Migratorie non sono le vie degli uccelli- Edizioni Il Ponte del sale-2009).
Quando si è piccoli, ragazzi, e anche nell’età adulta, ci si spinge lontano, anche molto lontano, si pratica la distanza, per cercare qualcosa che si crede viva lì, in quella distanza tutta terrestre che, poi si capisce, non è nemmeno fisica. Ma questo avviene dopo, più tardi, spesso molto più tardi. Talvolta però un intoppo, qualcosa che ha frenato la corsa e ha franato il mondo, il corpo, o entrambi, la percezione della “vicinanza della distanza”, dell’intimità e della “prossimità”con essa, si fa tangibile, sveglia un senso nuovo. In quella “prossimità” con la frana si sente in sé la distanza, e ha, questa volta, l’ampiezza impercorribile della notte che abbiamo dentro. E’ un corpo-mondo mai visto prima e impraticabile con la vista. Gli occhi sono un battello e ci portano nella profondità, che diviene es-tensione. Si naviga il buio. Nel buio si toccano gli sbandamenti, con tutto il corpo, e ci si scortica, spesso fino a perdere la precedente sostanza, fino a perdere il sé antico per incappare in una primitività quasi animale. “Il corpo”, l’altra notte, vive a ridosso di quelle scabre ossa che bruciano il midollo come magma ma. E’il vuoto la parola densa, impenetrabile proprio perché così denso. Lì, nulla è separato da nulla. In Percorrere questa distanza, Saenz scrive :“Nelle profondità del mondo esistono spazi grandissimi / – un vuoto presieduto dal vuoto, / che è causa ed origine del terrore primordiale, del pensiero e dell’eco. / Esistono profondità inimmaginabili, concavità per il cui fascino, per il cui incanto, / sicuramente si resterebbe morti. In Nessuno ama aggiunge: “Nessuno ama e sono le cose che amano, / quando guardo il mondo e i venti, suntuoso batte il mio / cuore nell’angoscia / vedo gli esseri soli e straniati dal mondo, esploro/e arrischio per loro sul nascere/e non amano e non vogliono restare, transitano ed io sono / il loro unico amico. / Fin dalla solitudine le cose mi amano…”.Non ci sono tempi lontani, o morti, nella vita, tutto è, vivo persino nella morte. Migrare, nella notte, è acce(n)dere nel buio del corpo una miccia, dal corpo della morte al dentro della vita, il centro fuori asse del labirinto che brucia e ci abilita a vivere, toccare, anche se duole, la costola e il ventre dell’ atroce cieco minotauro, quel mostro cosmogonico che ci mastica in continuo e non finisce mai di sacrificare il silenzio, il mistero intatto di un corpo dentro il nostro e che, stranamente, ci troviamo addosso come un “abito”tessuto.