- che pena- ti dicevo, interrotta
dallo scroscio di sirene e bombe fuochi emittenti odori
assediati in una città impazzita.
Questa comunità di uomini claudicanti
che adorano un dio come loro sulle pietre
di una sola città legata a croce con aghi d’ore ammalate
di oscenità e falso involucro della stessa bestemmia
Uomini che non vacillano l’uno davanti all’orrore dell’altro
perché ciechi e sordi e senza possibilità di toccarsi
avanzano ciascuno alla propria carcerata forma dal cancro che li diffonde
in deformate associazioni filiazioni come da un mestruo verminoso
di femmine cagne sputate dall’orifizio di un inferno intermittente.
Nel sagrato un lezzo
si solleva e dalla catasta di corpi ammonticchiati
se ne viene presso l’altare un pietro senza piedi e senza bocca
segnando l’aria imputridita. Si solleva su tutti come un sacco
gonfio d’aria e giocando sulle teste versa un unguento di escrementi e sangue
nera una pece a pioggia riveste i presenti nudi ora e ad ogni altra come
cadaveri presso la porta dell’ultima sentenza. In uno spaccato
si solleva l’asfalto e un rivolo come di parola mozza sghemba con forza
si schiaccia contro la fronte delle donne la penetra ne trapassa il cranio
e in essa germoglia virus e batteri come un’unica sostanza che freme.
Un attimo lo scompiglio. Poi tutto si acquieta
come fosse quella quell’unica visione della fossa
la morte l’unica possibilità di varcare la vita. Nudi
senza più parola uomini e bestie in una sola amalgama fluente si accostano
l’uno sull’altro senza più riconoscimento come un lievito
che rapido imputridisce e muffa su muffa rinverdisce lo spazio
un campo dove tutto ora è niente
e la vita si ripristina in un ciuffo d’erba come peluria
cresciuta dal selciato un pube che si apre nella radice
albero di un antico orrore. E tutto riprende. Tutto. Senza sosta
si doppia e moltiplica la carne quell’unica zolla di un Dio
che si allarga un rosso tornasole su una striscia di se stesso un segno
dove il cielo come prima s’è interrato un’altra volta.