Sei seduta dall’altra parte del tavolo e fumi una sigaretta dopo l’altra mentre parliamo di morte come se fosse un vestito comprato al mercato.
Ti guardo e penso che tutto è dannatamente ingiusto, in tutti i sensi, per te che non hai avuto proprio niente, sei timida e brutta, con un sorriso da ebete stampato sulla bocca e ora, per giunta, stordita dall’ennesimo dolore.
Dunque, di natura sei un orpello – e mi domando chi è stato il parrucchiere che ti ha tinto i capelli di giallo oro – mentre continui a raccontarmi di un impiego che non ti soddisfa, dei tuoi genitori ti hanno lasciato come eredità solo il gatto e di come, forse, non sei mai stata innamorata e del tempo che stringe.
Figlia della vergogna, ossia figlia d’una madre elegante e sofisticata, che ha avuto tutti i numeri per giocarsi la vita e di un padre, pilota di aerei, che un giorno ha preso il volo e non è più tornato.
E continuiamo a parlare per ore ed ore di questa madre: del suo visone, degli occhi di smeraldi e delle dita adornate da diamanti, della casa a Nicaragua e di quella ai Parioli, dei viaggi a non finire, per tutto il mondo. E di te, che sei sempre stata la sua fastidiosa ombra.
Non ti hanno dato nemmeno lo spazio per nuotare, rinchiusa così com’eri come un pesce in un acquario. Ora però, forse per la prima volta, stai tentando di straripare. Sei libera, puoi provare, come la cozza quando si stacca dallo scoglio e si lascia andare.
E mentre ti osservo tra il fumo che ci divide e ci unisce, penso che la vita è una grande montagna di letame.
Carmen
(dedicata ad una persona – non sono io meglio precisare – che stanca degli schiaffi della vita si tinse i capelli d’oro)