No, questa volta non mi avrai alla tua corte. Stasera non sarò del tuo seguito di cicisbei. Probabilmente non te ne sei mai accorta, ma ho una dignità, io. Non mi confonderò con il numero degli ingenui che verranno a mendicare i tuoi sorrisi, i tuoi sguardi da civetta amministrati con malizia. Arrivo nel parcheggio del solito locale, già pieno di macchine. Trovo un posto. Fisso lo sguardo nello specchietto interno dell’automobile, dal quale due occhi mi guardano con fierezza: stasera capirà chi sono. Scendo dalla macchina, mi avvio all’ingresso, salutando con un cenno alcune persone. Entro, prendo da bere e mi dirigo nella sala più grande. Alle luci soffuse dei faretti, mi raggiunge un vociare sommesso, frammisto a un debole sottofondo musicale: la serata è già nel vivo. Scorgo un divanetto libero in un angolo appartato, da cui è possibile osservare tutta la sala, e mi siedo. Occhieggio intorno con discrezione, con ostentata indifferenza. Davanti a me si rappresenta il solito spettacolo serale, composizione di innumerevoli, multiformi teatrini, ciascuno consumato nella recita del proprio romanzo: gruppi di amici, coppie di innamorati intrecciano voci, sorrisi, scherzi. Gente entra, esce, saluta, fa conoscenza. Eccola, lei è già qui, seduta a quel tavolo in fondo. Guarda come si diverte, istallata sulle sue lunghe gambe accavallate, come sorride, gesticola, come concede lo sguardo dei grandi occhi castani ai suoi corteggiatori! Già ne sono seduti ben cinque, al tuo tavolino. Ridono, alle tue solite battute ingenue, pendono dalle tue labbra. E tu li guardi, un po’ per uno, ciascuno come se fossi là solo per lui. Ecco, si è voltata, mi ha visto. Non aspettarti che io venga a riverirti, non mi muoverò dal mio posto. Finge di non avermi notato. Si gira ancora un paio di volte verso di me, mi scruta, così, senza averne l’aria. A un tratto incrocia il mio sguardo. Come se si fosse appena accorta di me, estrae il suo migliore sorriso e solleva la mano in un saluto. Ricambio con un gesto, ma faccio capire che non intendo avvicinarmi. Senza smettere di sorridere si alza, dice qualcosa ai suoi amici e sia avvia verso di me. Già, quale pastore non lascia le novantanove pecorelle nel recinto e non va a recuperare quella smarrita? Ma troverà pane per i suoi denti. Eccola allora che sfila, erige l’omerico arsenale di seduttrice, avanza, prorompente, mediterranea, callipigia, abbatte tutt’intorno la falce impietosa del suo fascino di femmina, uomini, donne, nessuno rimane indifferente, conversazioni si spengono, gomiti furtivi battono segnali, sguardi gelosi avvampano. Si avvicina ancheggiando in tutta la figura alta e formosa. I lunghi capelli castani ondeggiano nel verso opposto. Io mi alzo, cortese ma altezzoso. Il mio avversario, terribile nella consapevolezza della sua potenza, mi è di fronte. “Giovanni!” La sua voce melliflua, anche le corde vocali ti prestò Afrodite, e il suo profumo lanciano congiunti un primo assalto, ma stasera rimarrò ben saldo nella fortezza del mio orgoglio. “Non ti avevo visto”, continua, “da quanto stai qua?”. “Non da molto”. “Ma guarda”, riprende, “proprio oggi ho parlato di te con un’amica. Si chiama Marta, forse la conosci”. “Mi pare”, mento. “Deve partire per l’Irlanda. Anche tu ci sei stato, se non ricordo male!”. “Sì”, ribatto, e incalzato dalle sue domande comincio a raccontare. Chiede dei voli, del clima, della cucina. Mi fissa con attenzione, dando importanza a tutte le mie parole. Si siede, mi siedo anch’io. Continua a interrogarmi con interesse. Dopo un po’ si avvicina uno del suo tavolo: “Paola, sono arrivate le consumazioni!”. “Per favore, la mia portamela qua!”. Il giovanotto ritorna con un bicchiere colmo di beverone verdastro. “Roberto, conosci Giovanni?”, mi indica all’amico, “mi sta raccontando del suo viaggio in Irlanda. È divertentissimo!” Mi alzo e ci stringiamo la mano. Lo compiango, poveraccio, ridotto a maggiordomo senza che neanche se ne sia accorto. Lei agguanta il bicchiere, io mi siedo e riprendo la narrazione. Il giovane, un tipo basso, esile, occhialuto e sbarbatissimo, vestito con particolare cura, dopo un attimo d’impaccio, trova posto anche lui, in bilico su un bracciolo del divano. Non passa molto tempo, che fa il suo ingresso un gruppetto di tre ragazzi. Uno di loro si ferma: “Paoletta!”. “Ciao!”. Saluta i tre. “Prendetevi le sedie e fateci compagnia!”. I nuovi arrivati tornano subito attrezzati di puff e si assiepano attorno a noi. Lei mi chiede ancora dell’Irlanda, “continua, sei troppo divertente quando racconti!”. Il gruppo s’incolla alle mie labbra e io parlo, parlo, novello Joyce, proseguo con i miei racconti dublinesi, narro dei parchi senza ombra, della crisi di astinenza da pasta, delle indigene lentigginose, interrotto a tratti da risate e domande. Mi sento a mio agio, divento una fiumana di parole. Colgo, di tanto in tanto, il suo sguardo, ora obliquo, ora diretto, sprofondarsi nei miei occhi, il nasino perfetto puntarmi, la curva delle labbra disegnare un sorriso limpidissimo. La serata continua così, sono disteso, raggiante. “Uff, che sete”, fa lei. Teste premurose torcono i colli, ruotano tutt’attorno alla ricerca vana di un cameriere. “Se non bevo subito qualcosa muoio!”. È a questo punto che avverto la mia persona alzarsi con un moto elastico e sento la mia voce esclamare “lascia fare a zio Gio’!”. “Ma no, non disturbarti!”. “Tranquilla” continua la mia voce, “ti porterò il cameriere su un vassoio!”. “Sei carinissimo, grazie; gli dici una cedrata, no, una cedrata con aperol”. Scompaio dalla sala. Dopo pochi minuti ritorno con un bicchiere di cedrata con aperol. “Grazie, non ho parole”. “Ma figurati, non ti avrei certo lasciata morire di sete. Domani ho una giornata piena, non sarei potuto venire al funerale!” Mi siedo e la vedo bere, la vedo affondare tra le labbra il bordo del bicchiere per una misura inumana, la vedo ingoiare sorsi grandi, voluttuosi, la vedo assaporare, con la cedrata, oltre all’essenza alcolica dell’aperol, il gusto incomparabile e inebriante del suo trionfo. Sì, ci sono cascato anche stasera. Uno specchio, eretto beffardo sulla parete vicina, consegna alla mia vista quella scena che avevo più volte evocato gonfio di stizza: tutti e cinque rivolgiamo l’attenzione verso di lei, tesi a riconoscere le sfumature dei suoi cenni, dei suoi sorrisi, dei suoi sguardi, pronti a compiacere le sue aspettative da regina. La serata procede così, come le altre, finché non ci alziamo tutti, riceviamo ciascuno il saluto rituale sotto forma di tocco guancia-guancia, solo a sinistra, com’è suo vezzo, e ci riversiamo, parlottando, nel piazzale. Là ci sparpagliamo, alla volta delle rispettive automobili. Salgo in macchina, avvilito nell’orgoglio, fiaccato nello spirito. Ho perso, lei ha vinto, ha stravinto ancora una volta. Metto in moto. Mi accodo alla fila di auto che attende il paziente turno per pagare la mancia al parcheggiatore. Incombe, in alto a destra, lo specchietto della macchina. Non mi basta il cuore per sfidarne lo sguardo. Cedo. Incrocio due occhi che mi fissano con disprezzo. A un tratto vi colgo anche un breve lampo di soddisfazione. Sì, con la cedrata e con l’aperol, oltre al suo trionfo, lei aveva gustato anche un po’ della mia secrezione salivare, raccolta con destrezza e depositata con discrezione nel bicchiere sotto forma di piccolo sputo. Inutile consolazione. Allungo il braccio con 45 centesimi per il parcheggiatore. Incasso il suo ironico “grazie, amico”. Mi avvio per la strada che corre a smarrirsi nel buio. La notte inghiotte nelle sue spire d’inchiostro le sue colline, i suoi alberi, le sue case. Anche i suoi sprovveduti. Come me.
Gennaio 2009