Come ogni sera, prima di addormentarsi, Sara teneva stretta a sé la sua bambolabambina che la guardava con occhi sterili di luce. Aspettava che la cantilena della sua ninnananna confinasse tra le pareti basse della soffitta oscura, dove il castigo prendeva forma nelle ombre più strane. La bambina indossava un vestito di pizzo macchiato dai livori degli adulti e aveva battezzata la sua bambola con il suo stesso nome. Aveva fatto la cattiva pure oggi, Sara, e in soffitta ci andava ormai da sola. La madre, giù in cucina, affogava le inquietudini e i fallimenti in una bottiglia di alcool. Sara incominciò a spogliare la sua bambola rimproverandola di essere muta.Voleva sentire il suono rauco del dolore spezzandole un braccio, ma la bambola restava ostinatamente con la stessa espressione. Sara, allora, provò a sculacciarla fino a farsi male le dita, ma sulla bambola nessun livore. Improvvisamente, si ricordò di sua madre, di come anche lei aveva picchiato la sua bambola, ma quella bambola aveva pianto. Non riusciva a capire perché la sua continuava invece a guardarla con quella stupida espressione negli occhi ? Occhi. Spinse con un dito in dentro gli occhi della bambola, che ora senza occhi pareva cambiare espressione. Senza espressione e senza occhi la bambola era più bella, le sembrava. Intanto, dalla cucina la madre salì barcollando su per le scale. Aprì la porta della soffitta e, alla vista di cosa aveva fatto la figlia alla sua bambola, disse: “Brava Sara”.