Il fiume della Bassa, stando a Guareschi, nel mormorio del suo corso tramanda storie lontane nel tempo, vicende che ha visto compiersi e che consegna come testimone alle generazioni che sopravvengono. Il torrente che scorre dalle mie parti, invece, è ormai quasi prosciugato, per cui è raro udirne il mormorio. Eppure qualche volta, nelle sere fredde d’inverno, quando le piogge forti ne gonfiano il flutto, a chi capita di passeggiare lungo gli scarsi argini ancora scoperti può accadere di sentirne la voce. Allora le stratificazioni del tempo si scarnificano, si vedono scrostarsi gli intonaci nuovi, scorticarsi i manti di asfalto e comparire i muri antichi, i ciottoli vecchi delle vie che ancora riposano intatti sotto le pavimentazioni moderne e che portano impresse le impronte dei piedi che li hanno calcati. In questo scenario incantato, riprendono forma e si animano uomini e donne dei tempi passati, si assiste a storie vere di persone che non ci sono più, ma che, se ci sarà qualcuno a ricordarle, in un certo senso vivranno per sempre. È proprio una di queste storie vere che ci accingiamo a raccontare.
Avvenne così che quella sera capitolò all’esasperazione e decise di uccidere don Augusto. Non ne poteva più delle sue prepotenze, aveva risolto di non lasciarsi prevaricare e di comportarsi da uomo. Dopo aver gridato a squarciagola, contando alla propria incolpevole moglie le nefandezze dell’empio, imbracciò lo schioppo a tracolla, all’uso dei cacciatori, calzò il cappello e annunciò: “vado ad ammazzare don Augusto!”. A nulla valsero le urla della donna, i pianti d’isterismo con cui provò a trattenerlo: egli s’incamminò iroso senza tentennare, privo di ripensamenti, quasi condotto da una superiore necessità. Con il marchio di Caino già impresso sulla fronte, imboccò la strada ghiaiosa e si avviò nell’aria tiepida di un tramonto d’inizio estate. Se i punti cardinali, da allora, non si sono spostati, per raggiungere l’abitazione della vittima doveva procedere verso ovest. Questo significa che l’ombra si proiettava alle sue spalle: anche l’ombra, compagna di una vita, lo lasciava solo in questo momento estremo. Abbandonato alla solitudine delle grandi imprese, calcava i ciottoli della via con passo fiero e sguardo diritto. Davanti a lui la sfera d’arancio del sole calava sulle colline: non insensibile alle vicende degli uomini, pareva, in quella sera di tregenda, che tingesse il cielo e i campi e le case di un rosso più vivo, quasi a preannunciare il dramma dei due destini che stavano per compiersi. Per sempre. Nel teatro dell’esistenza, la tragedia della vita e le miserie del destino avevano sospinto il nostro eroe a dover scegliere tra la legge degli uomini e quella della natura, tra i comandi di Dio e quelli dell’onore. E lui aveva scelto. Più tapino di Oreste e di Antigone, secondava i passi di una necessità ostile e imperscrutabile che lo precipitava negli abissi del dramma. Nessuno gli si parò davanti per la via: era l’immediato dopocena, quando è appena trascorsa la mezz’ora durante la quale, come per quella del pranzo, ancora ai giorni nostri, da queste parti, vige il più rigoroso dei coprifuochi. Superata la concavità dell’ultima curva, l’assassino vide ergersi il palazzo signorile nella sua imponente palescenza. Sotto l’arco di pietra, contro il pesante portone di legno, stava appoggiato proprio don Augusto. Cosa avesse combinato costui per meritare la morte non ci è stato tramandato, per cui sospendiamo qualunque giudizio sulle coscienze dei personaggi e sui moventi che ne spinsero le scelte. Fatto sta che la figura di don Augusto compariva al carnefice in tutta la sua odiosa fisicità. La sigaretta spirava un filo di fumo biancastro che si smarriva nell’aria, simile a una locomotiva lontana. L’omicida avvertì il battito del cuore farsi più forte e profondo. L’udito si acuì, disvelando note e sfumature nuove di suoni; le ciglia si aggrottarono spontanee, il respiro corse più fluido, i muscoli s’irrorarono di sangue come prima di uno sforzo. L’istinto ancestrale di predatore inebriò di sé il nostro eroe, l’uomo della pietra che affrontava i nemici sopprimendoli di clava affiorava potente nelle sue arterie. La distanza dal nemico si riduceva sempre più, gli fu accosto, levò lo sguardo in tralice, la testa reclinata impercettibilmente, lo fissò, avvampò d’odio e di avversione, la mano si alzò lenta, raggiunse il cappello impugnandone la visiera tra i polpastrelli. “Felice notte a Signoria, ‘on Augù!”.
Furono queste le parole che consegnò alla storia, continuando sempre a camminare, per poi tornare a casa seguendo un sentiero secondario.
Forse al nostro uomo mancò qualcosa per compiere un gesto che lo facesse ricordare simile a un personaggio della tragedia antica; può darsi che in vita non fu mai paragonato a un eroe di Shakespeare. Probabilmente, però, quella notte gli fu possibile dormire tranquillo, con ogni probabilità dormì serena anche la moglie. Quello che è certo è che a farsi un bel sonno ristoratore fu senz’altro don Augusto.