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UtenteMessaggio

13:05
2 novembre 2010


admin

Amministratore

messaggi3520

Il lago era adagiato nella conca verde, azzurro profondo liscio come un drappo di seta. Non un respiro smuoveva l’ aria. Non un sospiro incrinava il silenzio.

Ogni foglia, ogni filo d’ erba era immobile. Una gran quiete rivestiva la valle, s’ insinuava fra gli alberi, saliva lungo i canaloni bruni e raggiungeva le rocce in alto dove solo cespugli crescevano, forti, spinosi, tenaci.

Nel silenzio si rincorrevano echi nati dal passato e giunti attraverso lo scorrer della sabbia fra le dita di una mano fino a quel momento. Solo echi. Di grida. Di pianti e sorrisi, di sangue e d’ amore. Di carezze e bellezza. Echi del passato.

Frenzy lasciava che i secondi  ssfacessero in minuti, i minuti in ore dentro di lei. Li sentiva passare.

Disprezzava lo scorrer del tempo, quello stesso che una volta, quando era molto giovane e ingenua,  aveva temuto, la corsa pazza verso la fine della vita che ogni frazione di tempo porta con sè. Ma era stato lo sbandamento di un momento. Può capitare a tutti d’ aver un pensiero così nella vita. Poi si ragiona. Si capisce. Ci si arrende. Il tempo non lo ferma nessuno. Frenzy aveva trovato il suo compito e vi si era tenuta stretta senza guardare avanti, in realtà senza neppure guardarsi intorno. E aveva sepolto le sue paure insieme ai sentimenti e alle emozioni inutili, pesi da portarsi appresso, logoranti, fastidiosi con quel loro continuo proporre immagini e fermenti di carne e di spirito. Intollerabili, da perderci solo del tempo per ritrovarsi senza niente in mano. Le cose. Concrete. Sì. Da vedere, toccare, annusare, analizzare, dividere in segmenti sempre più corti, ma con una loro ragione d’ essere. Segmenti. La sua vita era fatta di segmenti.

Nessuno spazio all’ immaginazione.

Rain ci aveva creduto all’ immaginazione. Maledetto il tuo nome, Rain. Ecco, dirlo così, maledetto il tuo nome, Rain: senza emozione. Quello era un risultato più che accettabile, quasi soddisfacente. Lui e le sue emozioni. Da debole. Ed era finito come finiscono i deboli: a grattarsi le ascelle nella gabbia, cercando il filo della mente senza riuscire a trovarlo. Non l’ avrebbe ripreso in mano, mai più, quel filo. S’ era interrotto, aggrovigliato, pieno di nodi e adesso se

ne stava là per terra abbandonato. Rain e i suoi pensieri. Un reazionario. Rain e i sentimenti. Un romantico. Ecco, se si fosse trovato lì, con lei, in quel momento, gli sarebbe mancato il fiato e forse , anzi, di certo, avrebbe pianto di fronte alla superficie del lago. Di fronte alle cime delle montagne che lo circondavano. Di fronte ai prati che lo contornavano. Con l’ erba alta e gli insetti, le farfalle, gli uccelli.

 Era un debole. Non c’ era posto per i deboli nel loro mondo. Che poi per mondo intendevano tutto quel lungo susseguirsi di ore e giorni e mesi e anni vissuti a scrutare l’ interno delle cose, atomizzando il fattore ieri nel rapporto con il fattore oggi, isolando quello che era stato il principio dei principi. E nessuno più che guardasse fuori da una finestra, a trovarla poi una finestra nel loro mondo di scatole una dentro l’ altra, e tutte le une sopra le altre in altissime lance svettanti fino al cielo, o perlomeno dove un cielo ci doveva pur essere ancora. Che poi più in alto si andava, più vicini si era al principio, credevano alcuni. Anche a averla avuta una finestra, non sarebbe stato granché. L’ umido e il grasso si sarebbero impiastricciati sui vetri rivestendoli di una patina grigia e non ci sarebbero voluti più di due minuti ad annullarne le trasparenza. Comunque lei aveva scelto il basso, i cunicoli sotterranei, dove la mente, strisciando attorno al passato, sfiorava il presente, cercando un futuro. Sottoterra dove

la luce era bianca, fari ovunque, alogeni. Dove le pareti erano state ricoperte da un preparato anti umido, anti muffa, anti età, bianco e setoso, dove per terra lunghissime strisce verdi, rosse e blu indicavano le direzioni da prendere, le deviazioni verso gli uffici, i laboratori, le celle che erano le loro camere, ogni percorso perfettamente delineato.

Aveva scelto di stare lì. Dopo che Rain era sparito. Rain il debole che era impazzito e urlando s’ era scagliato contro i muri così bianchi e setosi, macchiandoli di sangue, il suo sangue, così rosso e fresco e pulito è il sangue di un folle. E poi non c’ era stato più nessun Rain.

Lei era rimasta. In fondo ai pozzi nel biancore accecante, fra provette trasparenti  e schermi che le trasmettevano le notizie che nel tempo fluttuante eppur immobile, lei raccoglieva in files asettici per procedere nel suo lavoro di analisi dei dati, comparazione degli elementi dissimili, sintesi dei risultati.

Ma Rain aveva detto che analisi e sintesi avevano fatto il loro tempo e che quel che era rimasto era il caos. Il caos era tornato dalla somma delle loro esperienze. E non si poteva analizzare. Né sintetizzare. Solo sperare che in quel caos ci fosse ancora accesa e nascosta, nascosta e accesa, una scheggia d’ amore.

Perché Rain l’ aveva in bocca quella parola: amore. Mentre tutti sapevano che quella dell ‘ amore era una teoria deteriore, destabilizzante, scaduta, superata. Era un modo di sentire, l’ amore. I modi di sentire avevano causato tutto. Quello era stato l’ inizio

dell’ onda che aveva infranto gli schemi

dell’ urlo che aveva rotto le ossa ai morti

dei cunicoli e delle gabbie alte una sull’ altra, celle dove, se ti muovevi, solo finivi per andare a sbattere contro pareti luride.

L’ amore e il suo opposto, l’ odio: due fratelli che si danno la mano, che in simbiosi creano dolore affanno sorriso lacrima potere sopraffazione ipocrisia stanchezza: il caos.

E Rain, che ancora ne parlava, ci pensava, rimpiangeva. Ma lei aveva capito il  pericolo. S’ era fatta indietro: aveva fissato il pallore di Rain, aveva scostato la sua mano che le sfiorava il ventre, aveva ignorato la sua voce: “Un figlio nostro. Vuoi? Un figlio per amore. “ E se n’ era andata a lunghi passi rapidi a fare il suo dovere al laboratorio inseminazione artificiale. Aveva avuto due gemelli che, appena partoriti erano stati portati al nido dove li avrebbero cresciuti e clonati. Poi, con le carte in regola (aveva fatto il suo dovere), s’ era fatta sterilizzare. Libera. Aveva conquistato una sua libertà. Non doveva niente a nessuno. E nessuno le doveva niente. Rain intanto era scomparso. Lui e l’ amore, che rende schiavi. Aveva rimosso il ricordo di lui che le sfiorava il ventre e le chiedeva un figlio, di loro due. Fra provette lucide e colorate del colore dei sieri che contenevano, lungo i muri di un laboratorio dove la relazione fra essere e non essere  non aveva importanza, il tempo srotolava la sua matassa con tanta lentezza da parere immobile.

Aveva grandi occhi grigi, Frenzy ,” Nuvole che si rincorrono nei cieli autunnali, mentre le foglie si staccano e cadono in fruscii a terra, sull’ erba che già è tutta un brivido in attesa dell’ inverno che verrà “:  parole di Rain.

E una bocca grande e ben delineata “… che solo non sapeva aprirsi al sorriso “: parole di Rain il folle.

E mani dalle dita affusolate, bianche con palmi morbidi “…come calici di fiori a primavera “ : parole di Rain il debole.

E occhi e bocca e mani erano perfetti per una creatura di carne e sangue e cuore.

“Nel cuore stanno i sentimenti che fanno ridere, piangere – felicità, sgomento - un patrimonio di sentimenti andato perso nel tentativo di riorganizzare il caos, dargli forma e costruire il mondo nuovo “: parole di Rain, il ribelle.

Gli occhi di Frenzy erano sempre grigi e le sue mani erano sempre bianche con lunghe dita affusolate. La bocca era ancora lì, incisa sul suo viso di donna del terzo millennio, o del clone di una donna del secondo millennio: la sua identità era andata smarrita nel caos. Che adesso era suo compito cercare di riordinare insieme agli altri che come lei stavano nei cunicoli, studiosi,

esperti, scienziati, ricercatori a seguire lungo le strisce colorate a terra i  lineamenti di un mondo nuovo.

Gli affossatori del caos. I becchini del passato. I demolitori della credulità e delle convinzioni fuggevoli. Gli assertori di una nuova libertà.

Non c’ era differenza fra il giorno e la notte nei cunicoli. La luce era sempre la stessa. Un sibilo prolungato segnava la fine dei turni di lavoro studio ricerca

e l’ inizio dei periodi di riposo. Ognuno nell’ amaca di corde sintetiche,

bianche, sotto il panno termico, bianco, con la maschera sul viso, la maschera

che trasmetteva un senso di torpore, perché “ …un tempo si dormiva. Noi no.

Noi cadiamo in trance. “ aveva detto Rain.

I computer trasmettevano le immagini della superficie dove ancora stavano i milioni di coloro che non avevano voluto o potuto, chissà, rinunciare del tutto ai sentimenti e allora s’ arabattavano, lottavano, correvano, s’ uccidevano, si derubavano, si tradivano, dando l’ anima in un formicaio dove gli uni sugli altri ricalcavano i riti di un passato finito. Il loro compito era anche aiutarli a liberarsi.

Ma era come se, nonostante tutto e nonostante tanti comprendessero alla fine che veniva loro offerta un’ occasione di trovar pace in un tranquillo proficuo coesistere, in un procrearsi senza problemi, i recidivi, quelli che non capivano, si moltiplicassero. Quelli che s’ accoppiavano perché sentivano lo stimolo dei sensi, quelli che uccidevano, quelli che facevano figli, quelli che

vendevano il veleno della loro verità, quelli che non capivano che a nulla serviva quel fermento dei sensi, quell’ ignobile scambio di liquidi organici si ammalavano e morivano, stracci, solo stracci…

“Ma alla luce “ diceva Rain. Quale luce? Di un sole incendiario, che tutto prosciugava e faceva avvizzire, di una luna dove colonie s’ erano insediate da decenni…

”Luce e non luce, giorno e notte, bene e male “ diceva Rain.

Ma loro sottoterra sapevano bene che tutti avrebbero compreso, tutti avrebbero accettato le nuove idee, quando le piogge acide fossero diventate più acide, quando il morbo avesse infettato ancor più virulento, quando si fossero scontrati con l’ impossibilità del sopravvivere, allora sì avrebbero accettato.

“Non li convincerete tutti. Sarebbe davvero la fine. “ Rain ne era convinto.

 

Si scosse, Frenzy dal cuore di canne palustri, e rispecchiò il viso nell’ acqua. Ci vide Rain. Che l’ aspettava. Che aspettava lei e il loro figlio. Che mai sarebbe nato. Gentilmente posò la mano sul suo viso e l’ accarezzò. Frenzy, il clone di una donna del II millennio, istruita a riorganizzare il caos, sterilizzando il sentimento.

“Rain. Sei qui. Sei finito qui. “

Lui le sorrise.

“Nel mondo di sopra. “

Lui annuì.

Lei annuì.

“Pazzo Rain. Credevi che tutto potesse essere amore, che per amore tutto si potesse risolvere, tutto ricreare…Sono venuta, Rain, a vedere questo mondo  di sopra. Ho trovato quello  che già sapevo  di trovare….poi, ho trovato …questo. Che cos’ è? “ Indicava con la mano bianca il lago e l’ erba e i monti e insieme il fruscio dell’ aria, l’ increspatura lasciata da un pesce a fior d’ acqua, il tremolio delle foglie.

“Che cos’ è? Non esistono più posti così. Sono scomparsi tanto tempo fa. Non esistono le condizioni per la loro sopravvivenza. Io lo so. Eppure … Ero stretta nel tanfo di steli disseccati lasciati a marcire lungo un canale di scolo fra muri alti nell’ aria appestata e mi passavano vicino, a frotte, gli uomini e mi urtavano, e ho visto bambini senza sorrisi, vecchi che sghignazzavano e giovani che non sapevano niente di niente, ed allora ho pensato a te, era tanto tempo che non ti pensavo, a dov’ eri finito e perchè, e mi son persa fra la gente e le strade e ho camminato anche senza le righe da seguire a terra, e pareva che sapessi dove andavo, non so quanto ho camminato, non saprei più tornare indietro e mi sono trovata qui come di colpo…Non è che la gente e le case si siano diradati fino a scomparire, che al cemento si sia sostituita l’ erba un poco alla volta, no, è stato d’ un tratto. Di colpo. Un momento ero là. Il momento dopo qui. Dove sono, Rain? “

Lui le ammiccò dal velo d’ acqua.

Lei strinse gli occhi pensando.

“Il mondo a modo di Rain? “

Lui disse sì e lei rispose sì entrando nell’ acqua del lago e lasciandosi andare a mani grandi come fiori di loto che le strinsero il viso e la trassero giù, forte forte stringendola, giù giù nell’ acqua verde che sapeva d’ erba e di sole e di pioggia e di lacrime d’ uomini persi in solitudini immense.

Frenzy

scomparve durante una breve ispezione, un giorno solare, al mondo di sopra, mandata com’ era stata, a contattare quelli che avevano fatto richiesta di adesione, dichiarandosi pronti a seguire le norme della vita fuori dal caos.

Scomparve semplicemente. Nessuno la cercò. Tanti ne sparivano di cloni ingoiati dall’ orrore del mondo di sopra. Un’ altro clone era pronto, istruito a sostituirla. Che non aveva mai sentito parlare di Rain, il diverso, un errore di manipolazione genetica. Anche lui scomparso.

Solo due files da cancellare.

Deleted:

Rain** clone di Matt Maddox 2002 – 2071

Frenzy**clone di Regina Grey  2010 – 2052

dmk

19:36
5 novembre 2010


Manfredi

Ospite

questo lo conoscevo, ma non ricordo dove l' ho letto, o forse me l' hai dato da leggere tu direttamente…

fantascienza d' amore in una società disgregata, de-umanizzata, sterilmente intubata e privata di ogni minima percezione naturale, con quel tanto di surreale che rende il brano suggestivo.

ohè, non è che vi mettete a scrivere di fanta – scienza, fanta – politica e cose così????Wink

non che non mi piaccia, ma ne vengono pensieri neri, ma così neri…., povera umanità!



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